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Gruppo Tata: imprenditoria familiare, leadership etica e business transformation

Raccontiamo la storia e l’organizzazione di TATA, una realtà familiare che, nata nel lontano 1868, rappresenta oggi un conglomerato industriale il cui fatturato supera i 100 miliardi di dollari e che ha tra i propri slogan “Improving the quality of life of the communities we serve” e “Leadership with trust”.

Le origini e lo sviluppo del Gruppo Tata

Jamsetji Tata (foto dal sito)

Nel 1868, in piena epoca coloniale britannica, Jamsetji Nusserwanji Tata fonda a Bombay un’impresa che, inizialmente, opera nel settore tessile e che avrebbe lasciato un segno profondo nel panorama industriale dell’India.

Visionario e innovatore, il capostipite della dinastia industriale Tata era animato dalla profonda convinzione che la vera forza dell’industria risiedesse nella sua capacità di migliorare la vita delle persone.

Negli anni nascono così, tra le varie iniziative, Tata Steel, la prima acciaieria integrata dell’India, ma anche una centrale idroelettrica, un hotel di lusso – il Taj Mahal Palace Hotel a Mumbai – e l’Indian Institute of Science, università tecnico-scientifica creata da Jamsetji Tata investendo il proprio patrimonio personale con la ferma convinzione dell’importanza della ricerca scientifica e dell'istruzione superiore nei processi di trasformazione e di crescita sociale ed economica.

In tutti questi progetti si evidenziava un chiaro modello di sviluppo: un’industria guidata non solo dal profitto, ma da un fine più alto. In questo approccio ritroviamo la via che Adriano Olivetti ha cercato di applicare anche in Italia, purtroppo con diversa fortuna.

Tata Steel, ad esempio, fu pioniere nell’ambito del welfare aziendale: fin dal 1910 introdusse un orario di lavoro di 8 ore, assistenza medica, scuole, ferie pagate, fondo pensione, formazione professionale, bonus, congedo maternità, molto prima che fossero pratiche comuni nelle aziende.

Intorno all’acciaieria, Tata ha creato anche un esempio di urbanizzazione, la città di Jamshedpur, con strade ampie, alberi, aree verdi, strutture sportive e luoghi di culto religiosi per vari gruppi comunitari. Per realizzare il progetto sono stati coinvolti architetti come Frederick Charles Temple e Otto Koenigsberger, che applicarono il modello della “garden city”, pianificazione urbanistica in cui i quartieri e gli isolati sono circondati da "cinture verdi".

Fondata nel 1945 come TELCO (Tata Engineering and Locomotive Co. Ltd.), Tata Motors rappresenta il cuore industriale e simbolico delle trasformazioni del gruppo. Iniziò costruendo locomotive, ma già nel 1954, grazie a una joint venture con Daimler-Benz, entrò nel settore dei veicoli commerciali, procedendo per passi successivi alla diversificazione della produzione e alla creazione di una propria autonomia tecnologica.

Negli anni ’80, sotto la spinta di Ratan Tata, l’azienda iniziò a orientarsi al settore delle autovetture.

La Tata Indica, lanciata nel 1998, fu la prima vettura interamente progettata e prodotta in India destinata anche ai mercati internazionali.

Seguirono diverse acquisizioni strategiche: nel 2004 la sudcoreana Daewoo Commercial Vehicle, nel 2008 le prestigiose Jaguar e Land Rover.

A partire dal 2010, Tata Motors ha intrapreso un nuovo ciclo trasformativo, questa volta orientato a design, sicurezza e sostenibilità ambientale. Tata Motors oggi ha un proprio portafoglio di tecnologie ed è tra i leader in diversi settori, rappresentando un caso esemplare di trasformazione continua, in risposta alle sollecitazioni del mercato, ambientali e tecnologiche.

J.R.D. Tata (foto dal sito)

Altro esempio degno di essere citato è anche quello di Air India, fondata da J.R.D. Tata nel 1932 come Tata Airlines che, dopo la nazionalizzazione degli anni '50, nel 2022 è stata riacquisita da Tata Sons che ha intrapreso un importante piano di rilancio per portare il vettore a essere una compagnia aerea globale di livello mondiale con un cuore indiano.

La filantropia come struttura portante:

il ruolo delle Tata Trusts

Un aspetto peculiare del Gruppo Tata è che circa il 66% delle azioni di Tata Sons, la holding del gruppo, è controllato dalle Tata Trusts, istituzioni filantropiche che operano fin dai primi anni di vita delle industrie Tata. Questo assetto garantisce che la strategia industriale del gruppo sia guidata da un interesse collettivo, e non solo da quello privato.

Le Tata Trusts promuovono iniziative per l'istruzione, la salute, la cultura e i mezzi di sussistenza in India (foto dal sito)

Le Tata Trusts gestiscono un patrimonio superiore a 11 miliardi di dollari e donano oltre 400 milioni l’anno per progetti in sanità, educazione, ambiente, empowerment rurale e innovazione sociale. Ad esempio, durante la pandemia hanno stanziato oltre 180 milioni di dollari per strutture sanitarie, vaccini e dispositivi medici.

In campo educativo, promuovono iniziative come Internet Saathi (un programma di alfabetizzazione digitale che coinvolge oltre 1 milione di donne in aree rurali attraverso un modello "train-the-trainer", in cui le donne formate, le "Internet Saathis" insegnano ad altre donne della loro comunità a utilizzare Internet e i dispositivi digitali) e sostengono università e scuole d’eccellenza, come il già citato Indian Institute of Science. Nella sanità vengono finanziati ospedali oncologici e programmi di screening su larga scala. Nel settore ambientale, realizzano attraverso Tata Power campagne di sensibilizzazione energetica, riforestazione e risparmio idrico.

Infine, attraverso piattaforme come Tata Engage, oltre un milione di ore di volontariato vengono donate ogni anno da dipendenti, pensionati e familiari, creando una vera “cultura civica aziendale”.

Le Tata Trusts sono oggi guidate da Noel N. Tata, nominano circa un terzo del board di Tata Sons e godono di diritto di veto strategico. Ciò assicura un controllo etico sulla visione di lungo periodo, pur lasciando autonomia operativa al management.

Questo equilibrio tra famiglia, manager professionisti e filantropia rappresenta senza dubbio un unicum nel panorama industriale internazionale.

Conclusione: una lezione per il XXI secolo

La storia del Gruppo Tata è la dimostrazione concreta che l’impresa familiare può essere globale, etica e innovativa allo stesso tempo. In 150 anni, il gruppo ha attraversato imperi, crisi, liberalizzazioni e rivoluzioni tecnologiche senza perdere di vista la propria identità.

Grazie a una leadership stabile ma aperta al cambiamento, a un sistema di controllo fondato su Trusts filantropici, e a una costante capacità di anticipare e guidare le trasformazioni industriali, Tata è oggi un faro di capitalismo responsabile.

Nel tempo della transizione ecologica, delle disuguaglianze crescenti e dell’intelligenza artificiale, il Gruppo Tata ci ricorda che la trasformazione d’impresa non è solo questione di strategia, ma anche di scopo, comunità e coraggio etico.

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert

Nella foto di copertina: Tata Sons Private Limited, la principale holding del gruppo Tata


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Competenze e responsabilità: guidare i processi aziendali

Nel panorama odierno, caratterizzato da rapidi cambiamenti tecnologici, normative stringenti e crescente attenzione alla qualità e alla sostenibilità, il tema delle competenze e delle responsabilità in azienda assume un ruolo centrale. Non si tratta più soltanto di “saper fare”, ma di strutturare, monitorare e documentare in modo continuo le capacità delle persone e la corretta assegnazione dei ruoli.

In questo scenario, le norme ISO sui Sistemi di Gestione (come la ISO 9001 per la qualità, la ISO 14001 per l’ambiente e la ISO 45001 per la sicurezza) forniscono una guida essenziale e obbligatoria per le organizzazioni che vogliono operare secondo standard riconosciuti e affidabili.


La competenza come requisito sistemico

La ISO 9001:2015, al punto 7.2, introduce un concetto chiave: la competenza, vista come una combinazione coerente di istruzione, esperienza e apprendimento continuo.

Per adempiere al requisito normativo (obbligatorio), le organizzazioni che intendono lavorare in Qualità secondo la norma citata, devono:

  • determinare quali competenze sono necessarie per ogni attività che impatta sul sistema di gestione;

  • verificare che le persone siano effettivamente competenti;

  • colmare eventuali gap attraverso interventi formativi e monitorarne l’efficacia;

  • documentare in modo strutturato queste informazioni.

Tale approccio sistemico rende la competenza un asset misurabile e tracciabile, trasformando la gestione delle risorse umane da funzione operativa a punto di forza per la competitività e lo sviluppo aziendale.

Skill Matrix:

mappare e valorizzare le competenze

Per rendere operativi i concetti esposti, un valido supporto è offerto dallo strumento di Lean Management rappresentato dalla Skill Matrix, una matrice che incrocia le figure aziendali con le competenze richieste per le diverse attività. Ogni cella della matrice può riportare un livello di padronanza (es. 1 = in formazione, 2 = base, 3 = esperto, 4 = molto esperto), fornendo una fotografia istantanea delle capacità dell’organizzazione.

Esempio di Skill Matrix

Un’impresa manifatturiera, ad esempio, può costruire una Skill Matrix per il reparto produzione, indicando le competenze tecniche richieste per ogni macchina o impianto (es. macchine CNC, impianto di verniciatura, sistemi di monitoraggio e controllo) e il livello raggiunto da ogni operatore.

Analogamente per l’Ufficio Tecnico si possono verificare le competenze raggiunte nell’utilizzo dei software di calcolo o di disegno rispetto a quelle richieste.

 Questa operazione consente di:

  • identificare carenze di competenze critiche;

  • pianificare formazione mirata e percorsi di affiancamento;

  • assicurare la copertura operativa anche in situazioni straordinarie (ferie, malattie);

  • dimostrare in sede di audit che ogni attività è affidata a persone competenti.

Responsabilità:

chiarezza nei ruoli e continuità operativa

Parallelamente al tema della competenza, emerge quello della responsabilità. La Matrice delle Responsabilità (RAM – Responsibibility Assignment Matrix), da non confondere con la Skill Matrix sopra citata, consente di attribuire formalmente, per ogni attività chiave, un responsabile primario e uno o più sostituti operativi. Questa logica è fondamentale per garantire la continuità dei processi e ridurre i rischi organizzativi.

Esempio di RAM

Ad esempio, nel processo di gestione dei reclami cliente, si può assegnare la responsabilità primaria al Responsabile Qualità, con un backup designato nel team tecnico che possa sostituire il responsabile primario in caso di assenza. In questo caso, è importante sottolineare che tutti i soggetti coinvolti devono possedere la medesima competenza per assicurare che l'attività venga svolta in modo equivalente.

In assenza di una RAM formalizzata e gestita, le aziende possono rischiare inefficienze, mancanze documentali, o persino violazioni normative nei casi in cui attività obbligatorie non vengano svolte per assenza dei titolari.

Digitalizzazione delle matrici:

efficienza e tracciabilità

Con la trasformazione digitale in atto, sempre più organizzazioni stanno informatizzando la gestione delle competenze e delle responsabilità, integrandole in sistemi HR, ERP o moduli dedicati alla formazione. Questi strumenti permettono, ad esempio, di:

  • associare digitalmente a ogni posizione aziendale mansioni, responsabilità e competenze richieste;

  • mantenere evidenze aggiornate e sempre disponibili per audit e ispezioni;

  • tracciare scadenze formative, piani di aggiornamento e verifiche periodiche.

Alcuni software avanzati consentono di generare report automatici, allarmi sulle scadenze, simulazioni per coperture operative e analisi predittive sui fabbisogni formativi. Questo rende possibile gestire la crescita del personale in modo dinamico, coerente con gli obiettivi strategici dell’impresa.

Coerenza strategica

e coinvolgimento organizzativo

Non si può parlare di competenze e responsabilità senza considerare il fattore umano e culturale. Per funzionare davvero, queste logiche devono essere parte integrante della cultura aziendale, essere comprese e condivise da tutto il personale, non solo formalizzate in documenti. In tal senso, la consapevolezza (punto 7.3 della ISO 9001) diventa un elemento abilitante: ogni collaboratore deve sapere cosa ci si aspetta da lui, quali sono gli obiettivi aziendali e come il suo contributo è determinante per il successo dell’organizzazione.

Inoltre, l’analisi periodica delle competenze e delle responsabilità rappresenta uno strumento potente anche per la gestione del cambiamento, delle nuove tecnologie e della sostenibilità. Ad esempio:

  • nell’introduzione di un nuovo impianto automatizzato, la mappatura delle competenze permette di identificare i gap formativi e predisporre un piano di aggiornamento mirato;

  • nella gestione ESG, permette di collegare compiti e responsabilità a obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, favorendo un’accountability diffusa.

Conclusione

In sintesi, la gestione delle competenze e delle responsabilità è molto più di un adempimento normativo: è una componente chiave della Governance aziendale. Attraverso strumenti come la Skill Matrix e i sistemi digitali integrati, le organizzazioni possono garantire:

  • efficienza operativa e riduzione dei rischi;

  • miglioramento continuo della qualità e della sicurezza;

  • trasparenza nei ruoli e nella crescita professionale;

  • capacità di adattamento al cambiamento e all’innovazione.

In un mondo dove le performance aziendali continueranno a dipendere dalle persone (messe al centro anche nel modello “Industria 5.0”) e dalle specifiche competenze (che potranno riguardare settori innovativi come l’applicazione dell’A.I.), una gestione solida delle competenze e delle responsabilità rappresenta una delle migliori assicurazioni sul futuro delle imprese.

Fonte: Commissione UE

Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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IA e Robotica: verso l’Internet delle Abilità e nuove forme di interazione uomo-macchina

Dall’IT all’IAT

Il modello di Industria 5.0 sviluppato dall’Unione Europea prevede un’evoluzione della dimensione industriale verso una dimensione resiliente, sostenibile, ma soprattutto umano centrica.

Questa declinazione sembrerebbe essere in contrasto con l’avanzata dell’intelligenza artificiale nelle organizzazioni e nei sistemi produttivi. A tal proposito diversi studiosi di robotica, tra i quali l’italiano Bruno Siciliano dell’Università Federico II di Napoli, al fine di mantenere e valorizzare le competenze umane, si sono fatti promotori del concetto di Internet of Skills (Internet delle Abilità) e I.A.T. – Inter-Action Technologies, tecnologie dell’interazione tra uomo e robot che progressivamente andranno a sovrapporsi e a sostituirsi alle tecnologie dell’informazione (I.T.).

Le recenti innovazioni nel campo dell’IA, testimoniate dalle ricerche di società come Google e Nvidia, segnano la transizione dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (IT) a quelle dell’interazione (IAT).

Come sottolineato dal professor Siciliano, non si tratta di una semplice evoluzione tecnologica, ma di un vero e proprio cambio di paradigma, col quale, aggiungiamo noi, le aziende e le organizzazioni dovranno necessariamente confrontarsi, rivedendo il proprio approccio al business, per mantenere e migliorare il posizionamento nel mercato.

L’acronimo IAT sottolinea il ruolo chiave dell’interazione fisica nell’applicazione delle nuove tecnologie. Progressivamente assisteremo a un’evoluzione delle applicazioni di intelligenza artificiale da una dimensione cognitiva di analisi ed elaborazione di informazioni a una dimensione fisica che integrerà capacità di percezione, cognizione e azione concreta nel mondo fisico, con un’interazione tangibile con l’ambiente e l’essere umano. Si passerà dalla dimensione dell’Internet of Things a quella dell’Internet of Skills, ossia Internet delle Abilità: insieme di tecnologie capaci di esaltare il capitale umano e le abilità individuali.

A che punto siamo

con l’utilizzo dell’IA nell’Industria 5.0

Tra le principali applicazioni dell’IA nell’Industria 5.0 troviamo, ad esempio:

  • Manutenzione predittiva: attraverso l’analisi dei dati raccolti dai sensori, l’IA può prevedere guasti e malfunzionamenti delle macchine, riducendo tempi di inattività e costi di manutenzione.

  • Automazione collaborativa: i cobot (robot collaborativi) lavorano a fianco degli operatori umani, migliorando efficienza e sicurezza nei processi produttivi.

  • Ottimizzazione della supply chain: algoritmi avanzati analizzano i dati di produzione e logistica per migliorare la gestione delle scorte, ridurre i tempi di consegna e minimizzare gli sprechi.

  • Supporto decisionale: strumenti di IA analizzano grandi quantità di dati per fornire insight strategici ai manager, migliorando la qualità delle decisioni aziendali.

  • Sicurezza informatica e controllo qualità: le tecnologie di machine learning aiutano a individuare anomalie nei sistemi e a garantire standard produttivi elevati grazie all’analisi automatizzata di immagini e dati di produzione.

Alcune di queste applicazioni, ad esempio i robot collaborativi o i sistemi impiegati nella Supply Chain, già prevedono una forma di interazione tra l’uomo e la macchina, destinata, come abbiamo visto, a diventare sempre più stretta.

L’evoluzione richiede necessariamente sia un cambiamento di approccio verso la tecnologia, sia la maturazione di nuove competenze, non solo di tipo tecnico, ma anche relative alla sfera relazionale e delle cosiddette soft skill.

Formazione

per gestire l’evoluzione delle competenze

Per rispondere alle nuove esigenze, sarà necessario investire nella formazione delle risorse umane, per far emergere competenze manageriali e tecniche in grado di governare i processi digitalizzati. Le aziende dovranno rivedere le proprie strutture per integrare modelli formativi in grado di gestire la conoscenza e le competenze core.

Tra le strategie di formazione più efficaci:

  • Academy aziendali: strutture di formazione interna per garantire l’aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti.

  • E-learning e piattaforme digitali: soluzioni di apprendimento online che permettono un accesso flessibile e scalabile alle risorse formative.

  • Tutorship: trasferimento di competenze tra dipendenti senior e nuove generazioni di lavoratori.

  • Esperienze immersive e simulazioni AR/VR: utilizzo di realtà aumentata (AR) e virtuale (VR) per l’addestramento pratico in contesti sicuri e controllati.

Intelligenza Artificiale, Knowledge Management

e Normativa ISO

Per essere applicati in maniera strutturata ed efficace, i concetti citati necessitano di opportune linee guida. A difetto o in attesa di una regolamentazione armonizzata che ci auguriamo coinvolga il maggior numero di paesi, l’ISO (organizzazione di normazione internazionale attiva dal 1946 che raggruppa 174 paesi tra cui anche l’Italia) ha emesso due norme che possono essere utilizzate come riferimento per la gestione dell’IA e per l’organizzazione della conoscenza:

  • ISO 42001: Information technology – Artificial intelligence – Management system

  • ISO 30401: Knowledge management systems – Requirements

La norma ISO 42001:2023 è il primo standard internazionale dedicato ai sistemi di gestione dell'Intelligenza Artificiale (AI Management System-AIMS): fornisce un quadro strutturato per aiutare le organizzazioni a sviluppare, implementare e migliorare continuamente sistemi di IA in modo responsabile ed etico, prevenendo i rischi connessi con la qualità e l’utilizzo dei dati e delle informazioni rilasciati da questi sistemi. Applicabile a tutte le organizzazioni, indipendentemente dalle dimensioni o dal settore, la norma si basa sul ciclo PDCA (Plan-Do-Check-Act) e integra principi fondamentali come trasparenza, responsabilità, sicurezza e rispetto della privacy.​

La norma definisce requisiti per la governance dell'IA, la gestione dei rischi, la valutazione dell'impatto e la gestione dei dati, promuovendo l'affidabilità e la fiducia nelle applicazioni AI. Inoltre, supporta la certificazione esterna, offrendo alle organizzazioni uno strumento per dimostrare il proprio impegno verso pratiche AI responsabili.​

In sintesi, la ISO 42001 rappresenta un passo fondamentale per garantire che l'adozione dell'IA avvenga in modo etico, sicuro e conforme, contribuendo a una gestione efficace e sostenibile delle tecnologie intelligenti.

La norma ISO 30401 stabilisce i requisiti per l'istituzione, l'implementazione, il mantenimento, la revisione e il miglioramento di un sistema di gestione della conoscenza (KMS) efficace all'interno delle organizzazioni. Applicabile a organizzazioni di qualsiasi tipo e dimensione, la norma fornisce una guida per ottimizzare il valore della conoscenza, promuovendo la creazione di valore attraverso la gestione strategica delle informazioni e delle competenze.

La norma ISO 30401 si basa su un approccio sistemico che integra leadership, pianificazione, supporto, operatività, valutazione delle performance e miglioramento continuo. Essenziale è l'impegno della Direzione nel promuovere una cultura della conoscenza, l'identificazione e la condivisione delle conoscenze critiche, e l'adozione di tecnologie che facilitino l'accesso e la diffusione delle informazioni. La norma enfatizza anche l'importanza della formazione, della sicurezza delle informazioni e della compliance alle normative vigenti.

Riassumendo, ISO 30401 offre un quadro di riferimento per le organizzazioni che desiderano gestire efficacemente il proprio capitale intellettuale, migliorando l'efficienza operativa, l'innovazione e la competitività.

Conclusione

Il recupero della centralità dell’individuo e la gestione strategica della conoscenza e dei nuovi strumenti tecnologici rappresentano elementi fondamentali per il successo dell’Industria 5.0 e delle applicazioni dei sistemi di IA.

Le aziende sono chiamate ad adottare modelli organizzativi e formativi adeguati a garantire un efficace processo di sviluppo delle risorse umane e la loro corretta interazione con i sistemi di automazione. Solo attraverso un bilanciamento tra tecnologia e competenze umane sarà possibile realizzare un modello industriale sostenibile e innovativo, capace di valorizzare al massimo il potenziale delle persone.

L’Industria 5.0 e tutto quanto ruota intorno a essa non è solo una trasformazione tecnologica, ma un cambiamento culturale che pone l’individuo al centro dell’innovazione. Il futuro del lavoro non sarà definito dalla sostituzione dell’uomo con la macchina, ma dalla creazione di sinergie che permettano di valorizzare il meglio di entrambi. La sfida per le aziende sarà quella di adottare strategie integrate di formazione, gestione della conoscenza e innovazione, per garantire una crescita sostenibile e competitiva nel lungo termine.

 

Credit foto di copertina: Pavel Danilyuk - Pexels

 

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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L’Italia sul K2

31 luglio 1954: una conquista che è la storia di un progetto organizzato e gestito in modo vincente


Il 31 luglio 1954 l’Italia è ancora alle prese con le ferite della guerra. Dall’altra parte del mondo, a più di 8000 metri di altezza, con temperature che arrivano a 30° sotto zero, un gruppo di coraggiosi compie un’impresa che, a distanza di 70 anni, per le condizioni e le modalità con le quali è stata preparata e realizzata, rappresenta un esempio di progetto vincente che merita di essere ricordato con legittimo orgoglio e qualche riflessione.

Prendendo ad esempio i Giochi Olimpici di Parigi 2024, sarebbe semplice partire a fare qualche considerazione sul Project Management applicato all’organizzazione di grandi eventi e alla costruzione della preparazione atletica degli sportivi. Noi, invece, vogliamo riflettere su un evento che, settant’anni or sono, in un’Italia profondamente diversa da quella di oggi, ha avuto una risonanza mondiale e ha portato la nostra nazione nel consesso di quelle che hanno saputo “domare” le grandi vette del mondo, quelle cime tra India e Pakistan che, ancora oggi, attraggono scalatori e scalatrici da tutto il mondo che, in modo discreto e lontano dal trash e dal chiasso dei social network, affrontano sfide estreme.

La storia della conquista italiana del K2 è innanzitutto quella di un progetto e di una squadra costruita e guidata da un personaggio fuori dal comune.

Ardito Desio (in foto - 1954 Wikimedia), geologo ed esploratore friulano dalla vita lunga e ricca di esperienze (è scomparso a 104 anni, dopo aver compiuto studi e ricerche in patria e all’estero e aver ricoperto prestigiosi incarichi in istituzioni italiane e internazionali), è l’artefice della costruzione di questa impresa e può essere considerato un Project Manager “ante litteram” per le capacità di coinvolgimento degli stakeholder e di organizzazione messe in atto.

Nel preparare l’impresa Desio tiene ben presente tre aspetti che possono portare al successo del progetto: uomini, attrezzature, esperienza.

Innanzitutto gli uomini della squadra. Desio li sceglie tra scalatori esperti e giovani promesse della montagna e li sottopone a un duro processo di selezione medica per verificarne le condizioni fisiche e la capacità di sopportare le condizioni estreme che troveranno sul posto e che dovranno affrontare durante le scalate, anche solo per raggiungere il campo base. In questo processo vengono coinvolte équipes mediche di fama e utilizzate attrezzature sofisticate come la camera ipobarica per simulare le condizioni con cui gli uomini si sarebbero dovuti confrontare e le reazioni dell’organismo.

Anche le attrezzature e il materiale tecnico furono particolarmente studiati per l’occasione. Desio riuscì a coinvolgere nell’impresa un gruppo di 250 aziende italiane che misero a disposizione la migliore esperienza per mettere a punto materiali e attrezzature in grado di consentire di sopravvivere alla carenza di ossigeno e alle temperature estreme. Per il mondo industriale italiano che stava uscendo dalle ferite della guerra fu una sfida a giusto titolo paragonabile alla conquista della luna che avverrà oltre dieci anni dopo. Fu anche la spinta per compiere ricerche su tecnologie e materiali che saranno negli anni successivi messi a disposizione del grande pubblico.

Infine la preparazione basata sull’esperienza di altre spedizioni simili e sullo studio del contesto. Desio analizza con rigore scientifico la montagna (l’aveva già vista anni prima partecipando come esperto a una spedizione sugli stessi luoghi organizzata dal Duca di Spoleto) e le relazioni delle spedizioni realizzate da altri gruppi (gli americani nel 1953 fallirono la conquista della vetta per un grave incidente in cui perse la vita un componente della spedizione, cosa che fece desistere il gruppo), per capire le tattiche, i materiali e le attrezzature scelti.

Sul campo, poi, Desio ha la capacità di guidare il gruppo e mantenerlo coeso anche nelle difficoltà. Mario Puchoz morì improvvisamente per un edema polmonare durante la salita al campo base. L’ultima fase della conquista fu estremamente drammatica per la mancanza di ossigeno, risolta dall’impegno e dall’abnegazione di Walter Bonatti e del portatore Mahdi. Il telegramma con cui Desio annuncia la riuscita dell’impresa non riporta i nomi degli scalatori (Lacedelli e Compagnoni) che arrivarono in vetta, a sottolineare che la vittoria appartiene a giusto titolo a tutto il gruppo.

Fu una grande vittoria, sia sportiva sia scientifica, costruita dal punto di vista tecnico e logistico in modo impeccabile, avendo a disposizione risorse molto diverse da quelle utilizzabili dagli alpinisti di oggi. Un’impresa di squadra che ha avuto una risonanza epica e che ha dato a un’Italia povera e ancora ferita dalle conseguenze della guerra una grande spinta morale, legata alla certezza di essere tornati a contare nel mondo, vincendo con rispetto e impegno la “montagna degli dei”.





Foto di copertina: Daniel Born su Unsplash

Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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DA GUGLIELMO MARCONI A OGGI

Guglielmo Marconi, trasmissioni wireless e Intelligenza Artificiale: quando i cambiamenti sono disruptive


Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Guglielmo Marconi e, vista la portata dei cambiamenti che con le sue ricerche e sperimentazioni ha introdotto nel settore e nell’industria delle telecomunicazioni, è doveroso rendergli omaggio e chiedersi quale possa essere oggi un cambiamento simile a quello provocato dalle sue scoperte.

Il genio autodidatta che ha rivoluzionato le comunicazioni 

Il 25 aprile di 150 anni fa (era il 1874) nasce a Bologna Guglielmo Marconi. Di padre italiano e madre irlandese, il ragazzo decide presto di interrompere gli studi e, trasferitosi a Pontecchio, nell’Appennino bolognese, presso la paterna Villa Griffone, nell’inverno 1894-1895 compie numerosi esperimenti sulle onde elettromagnetiche, perseguendo l’idea di utilizzarle come veicolo per realizzare comunicazioni a distanza senza l’uso di fili.

Villa Griffone - Foto di A. Calisti

Nella primavera del 1895 Marconi riesce a emettere un segnale che, partendo dalla villa, percorre due chilometri, supera la collina detta ‘dei Celestini’, e raggiunge un ricevitore in mezzo alla campagna.

Nasce così l’era delle comunicazioni wireless e, improvvisamente, non solo il telegrafo di Morse (brevettato cinquant’anni prima) ma anche il telefono (inventato da meno di 25 anni, nel 1871) sembrano diventare obsoleti. Quest’ultimo sopravviverà fino ad oggi, integrando però le tecnologie marconiane nella telefonia cellulare.

Il resto è storia piuttosto nota. Purtroppo, la giovane Italia dell’epoca non arrivò a percepire la portata della scoperta di Marconi, che sarà brevettata in Inghilterra, paese che rimarrà per diverso tempo il centro delle attività dello studioso e dove nel 1898 nascerà la Marconi’s wireless telegraph and signal Company, azienda che sarà per lo scienziato il principale mezzo di sviluppo della sua invenzione.

Tavolo di lavoro di Marconi - Villa Griffone

Foto di A. Calisti

Nel giro di pochi anni i segnali di Marconi superano l’Oceano Atlantico, collegando le coste dell’Inghilterra con quelle del Canada e accendono le luci del municipio di Sidney attraverso un comando che lo stesso Marconi aziona dal porto di Genova (era il 26 marzo 1930). Questi segnali, emessi dalle navi lungo le loro rotte, salveranno molte vite in mare (emblematico è il caso del Titanic, ma anche, in tempi più recenti, del transatlantico italiano Andrea Doria). Sulle onde di Marconi viaggeranno intorno al mondo voci, musica e messaggi (purtroppo non sempre lieti) attraverso la radiofonia e la televisione. Saranno possibili i collegamenti nei viaggi spaziali e nell’esplorazione del cosmo e, grazie alla radioastronomia, saranno studiate stelle lontane e l’universo remoto.


Villa Griffone e tomba di Marconi - Foto di A. Calisti

Marconi muore improvvisamente per una crisi cardiaca il 20 luglio del 1937. A 63 anni lascia un’eredità di conoscenza di inestimabile valore, sulla quale nei decenni futuri si formeranno e lavoreranno generazioni di tecnici e ricercatori e che rappresenta il fondamento delle telecomunicazioni moderne e del “villaggio globale” che oggi abitiamo.

Veramente le scoperte di Marconi sono state disruptive nelle relazioni umane e nella riduzione della distanza tra paesi e continenti, veramente era, come lo hanno soprannominato gli americani, il wireless wizard, il mago delle comunicazioni senza fili.

L’Intelligenza Artificiale: la rivoluzione di questo secolo

Guardando alle scoperte di Marconi, viene spontaneo chiedersi quale strumento innovativo, oggi, possa essere accostato alle tecnologie sviluppate dal genio bolognese.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

La risposta, a nostro avviso, è da ricercare nel mondo dell’informatica che, ad esempio, attraverso la meccatronica, ha dato origine a soluzioni innovative nel settore dei processi di manufacturing. Ma un altro settore merita di essere paragonato a quello di cui Marconi è stato pioniere e iniziatore: l’Intelligenza Artificiale.

L’intelligenza artificiale generativa (ad esempio ChatGpt sviluppata dalla società OpenAI) è capace di svolgere molti compiti ritenuti finora umani e di generare contenuti multimediali (testo, immagini, video, musica, ecc.) in risposta a specifiche richieste. Si tratta di uno strumento che può essere utilizzato in diversi settori (dalla analisi di documenti alla produzione di contenuti a scopo di comunicazione).

L’impiego dell’I.A. è oggi, e sarà sempre di più nei prossimi anni, fonte di trasformazioni nell’organizzazione e nella gestione di risorse e di processi aziendali, consentendo, se impiegata nel modo giusto, di liberare ore e risorse umane da dedicare ad attività maggiormente strategiche e a valore aggiunto. Vedere nell’I.A. solamente uno strumento per “tagliare teste” è un modo riduttivo e ottuso di concepire l’impiego di tale strumento dal potenziale decisamente elevato, per il miglioramento di processi quali la Ricerca & Sviluppo, la Progettazione, la Produzione e la Supply Chain, assicurando un migliore coordinamento delle risorse, una automatizzazione e velocizzazione delle attività di routine.

Già oggi il 70% delle aziende che hanno utilizzato l’I.A. dichiara di aver migliorato la produttività; inoltre, secondo uno studio realizzato da The European House Ambrosetti e Microsoft, l’I.A. può generare un impatto positivo sul PIL attraverso il risparmio di ore lavorative e l’efficientamento dei processi.

Certamente, come evidenziato da molteplici organizzazioni di categoria, il mercato del lavoro dovrà misurarsi con l’impatto dell’I.A. Le nuove frontiere della digitalizzazione incideranno sulle aziende e sui lavoratori portando una trasformazione dei posti di lavoro, la scomparsa di alcune professioni e la nascita di altre. Per affrontare e governare tale cambiamento, decisamente disruptive, sarà importante essere preparati a sfruttare il potenziale offerto dalle nuove tecnologie in chiave di miglioramento della produttività, ma anche della qualità del lavoro.

Infine, è bene sottolinearlo, l’uomo dovrà comunque essere sempre al centro della macchina organizzativa. A lui dovrà spettare il compito di esaminare e valutare il prodotto dell’I.A. e di deciderne l’impiego. In questo modo si potranno evitare i rischi profetizzati da Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello spazio”, quando il disfunzionamento del supercomputer Hal 9000 determina il fallimento della missione spaziale, o raccontati da Ridley Scott in “Alien”, dove le decisioni dell’I.A. che governa la rotta della nave spaziale portano l’equipaggio al fatale incontro con l’alieno.

Di queste problematiche appare ben consapevole l’Unione Europea che, con il Regolamento sull’utilizzo dell’I.A., approvato lo scorso marzo, ha definito con un atto legislativo tra i primi al mondo, ambiti e requisiti per un corretto utilizzo dei sistemi di I.A. con le relative sanzioni per i trasgressori.

Foto di copertina (di A. Calisti): Radioricevitore Marconi 


Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

BLUPEAK - Business is culture

Agile Mindset&Design Thinking - Seconda parte

Agile Mindset&Design Thinking

per una Business Transformation di successo

seconda parte

Proseguendo l’articolo precedente, in cui ho parlato dell’Agile Mindset, ora tratto del Design Thinking.

Il Design Thinking è un modo di pensare, sviluppato per favorire l’innovazione e la creatività, con un approccio orientato all’utente e che parte da una comprensione approfondita dei suoi bisogni, per concepire soluzioni completamente nuove ed efficaci.  

Fin dall’inizio, alla base del Design Thinking c’è l’idea di un cambiamento disruptive: uno schema concettuale nuovo è necessario quando dobbiamo ideare prodotti o servizi innovativi, così come una Business Transformation che debba affrontare un passaggio radicale (quantico) o risolvere problemi particolarmente difficili di qualsiasi natura (i cosiddetti problemi aggrovigliati), laddove un approccio cartesiano convergente non è sufficiente. Nell’affrontare la Business Transformation, il Design Thinking può essere convenientemente integrato con le lezioni provenienti dalla Business Process Reengineering, sviluppate negli anni ’90 (Hammer, Davenport), il cui approccio prevede lo smantellamento e il ripensamento radicale di uno o più processi chiave dell’azienda.

Il Design Thinking si è sviluppato negli anni ‘80 e ‘90 alla Stanford University, adottato e perfezionato dalla maggior parte dei grandi player della produzione manifatturiera e del mondo digitale.

Un principio fondamentale del Design Thinking è che ogni innovazione deve operare nell’intersezione tra: 

  • Desiderabilità del cliente

  • Fattibilità tecnica

  • Sostenibilità aziendale

A mindset, a process, a toolkit?

Una delle principali aree di applicazione del Design Thinking, nei primi decenni della sua vita, è stata la progettazione dell’esperienza dell’utente (UX), dove è fondamentale sviluppare e affinare le competenze per comprendere e affrontare i rapidi cambiamenti negli ambienti e nei comportamenti degli utenti.

Il mondo è diventato sempre più interconnesso e complesso da quando Herbert A. Simon (Nobel per l’Economia e Premio Turing) ha menzionato per la prima volta il Design Thinking nel suo testo del 1969, “Sciences of the artificial”, e ha contribuito ad ampliare i suoi principi. Analisti di svariati settori, come architettura e ingegneria, hanno sviluppato tale modalità altamente creativa per affrontare le esigenze umane nell’era moderna e sempre più organizzazioni, in molteplici ambiti, troveranno nel Design Thinking uno strumento prezioso per sviluppare soluzioni innovative per prodotti e servizi. I team di progettazione utilizzano il Design Thinking per affrontare problemi poco definiti e sconosciuti (l’aggettivo inglese che è stato adottato, wicked, ha il senso di aggrovigliato, diabolico, malvagio, a sottolineare la difficoltà ad affrontarlo con metodi noti e schemi tradizionali; possiamo parlare di problemi complessi), perché in questo modo possono riformularli in modo umano-centrico e concentrarsi su ciò che è più critico per gli utenti.

Tra tutti i processi di progettazione, il Design Thinking è quasi certamente il migliore per pensare fuori dagli schemi. Con esso, i team possono svolgere meglio la ricerca UX, la prototipazione e i test di fruibilità per trovare nuovi modi di soddisfare le esigenze degli utenti.

La seguente distinzione delle fasi caratteristiche del Design Thinking è quella più universalmente adottata:

Fase 1: Empatizzare

Explore Users’ Needs - In questa fase è necessario approcciare empaticamente al problema da risolvere, in genere attraverso l’osservazione degli utenti. L’empatia è fondamentale per un processo di progettazione incentrato sull’uomo, perché consente di mettere da parte le proprie supposizioni sul mondo e di acquisire una visione reale degli utenti e delle loro esigenze. Quando è possibile, il designer deve mettersi nei panni dell’utente e vivere direttamente la sua esperienza. È utile integrare in questa fase qualsiasi conoscenza e capacità di gestire i bias cognitivi e le trappole mentali.

Fase 2: Definire

Assess your stakeholders’ pains & gains - La seconda fase consiste nell’accumulare le informazioni raccolte durante la fase precedente. Le osservazioni vengono analizzate e sintetizzate per definire i problemi principali identificati dal team. Queste definizioni sono talvolta chiamate problem statements. Un potente strumento per questo scopo è chiamato personas (una sorta di archetipo, realistico, del soggetto, con foto, citazioni, desideri, ostacoli...) per aiutare a mantenere gli sforzi centrati sull’uomo prima di procedere alle fasi successive.

Fase 3: Ideare

Create ideas adopting lateral thinking - Ora il team è pronto a generare idee. Il bagaglio di conoscenze acquisito nelle prime due fasi permette al team di iniziare a pensare fuori dagli schemi, a cercare modi alternativi di vedere il problema e a individuare soluzioni innovative per sostanziare l’affermazione proposta. Il brainstorming è particolarmente utile in questo caso, così come qualsiasi altro strumento di pensiero laterale, soprattutto i Sei Cappelli di De Bono (ci tornerò più avanti).

Fase 4: Prototipo

If fail, fail soon - Questa è una fase altamente empirica e sperimentale. L’obiettivo è identificare la migliore soluzione possibile per ogni problema riscontrato. Il team dovrebbe produrre alcune versioni economiche e ridotte del prodotto (o di specifiche funzionalità presenti nel prodotto) per approfondire le idee emerse. Ciò potrebbe comportare anche una semplice prototipazione su carta. Uno dei mantra del Design Thinking, infatti, è show, don’t tell (mostra, non raccontare): si tratta di un chiaro collegamento con l’Agile Mindset, che ricerca i primi feedback degli utenti attraverso la consegna incrementale delle parti di prodotto a cui si è lavorato. Si tratta di un passaggio critico, perché immaginare un fallimento, o peggio ancora cercare feedback negativi da parte degli utenti, è anticulturale, per nulla istintivo, per cui il team leader deve gestire con attenzione la consapevolezza e le emozioni del gruppo.

Fase 5: Test

Challenge your solutions to launch - I prototipi vengono testati rigorosamente. Anche se questa è la fase finale, il Design Thinking è iterativo. I team spesso utilizzano i risultati per ridefinire uno o più problemi successivi. Quindi, si può tornare alle fasi precedenti per effettuare ulteriori iterazioni, modifiche e perfezionamenti, per trovare o escludere soluzioni alternative. L’iterazione può riguardare qualsiasi fase.

Appare chiaro che utilizzando il Design Thinking combiniamo pensiero convergente e divergente, e l’abilità del team leader deve essere focalizzata nel bilanciare efficacemente questi due poli.

Divergent/convergent thinking

I principi di cui sopra possono essere sintetizzati così:

  • La comprensione dei bisogni del cliente è fondamentale.

  • L’approccio è fortemente incentrato sull’uomo.

  • Il valore della prototipazione è grande.

  • Il potere dello schizzo (Show, dont tell).

  • Un approccio al pensiero laterale ben allenato aiuta a evitare i bias cognitivi.

The De Bono Six Hats

I Sei cappelli per pensare sono stati creati e sviluppati dal Dr. Edward de Bono. La tecnica dei Sei cappelli e l’idea associata del pensiero parallelo forniscono ai team un mezzo per pianificare i processi di pensiero in modo dettagliato e coeso e, così facendo, per pensare insieme in modo più efficace.(1)

Sebbene il metodo dei Sei cappelli di De Bono non sia effettivamente incorporato nel Design Thinking, potrebbe rappresentarne una potente integrazione.

 Vediamo nel dettaglio:

  • Il Cappello Bianco si basa sull’analisi di informazioni conosciute o necessarie: “I fatti, solo i fatti.”

  • Il Cappello Giallo simboleggia luminosità e ottimismo. Sotto questo cappello si esplorano gli aspetti positivi e costruttivi e si cercano vantaggi e benefici.

  • Il Cappello del risk management è probabilmente il cappello più potente, ed è un problema, tuttavia, se usato eccessivamente: individua i punti critici e le cause di mal funzionamenti. È per sua natura un cappello d’azione, con l’intento appunto di evidenziare i rischi e superarli.

  • Il Cappello Rosso rappresenta sentimenti, presentimenti e intuizioni. Quando si usa questo cappello, è possibile esprimere liberamente le emozioni e ciò che proviamo, condividere paure, simpatie, antipatie, amori e odio.

  • Il Cappello Verde si concentra sulla creatività, sulle possibilità, sulle alternative e sull’originalità. Ci offre l’opportunità di esprimere concetti e percezioni nuovi.

  • Il Cappello Blu viene utilizzato per gestire in modo strutturato il processo del pensiero. È il meccanismo di controllo che garantisce che le linee guida dei Sei Cappelli del Pensiero® siano osservate.

Qui di seguito gli obiettivi che possono essere raggiunti applicando tale metodologia:

  • Massimizzare la collaborazione produttiva e minimizzare l’interazione e i comportamenti controproducenti

  • Considerare questioni, problemi, decisioni e opportunità in modo sistematico

  • Utilizzare il pensiero parallelo come gruppo o team per generare idee e soluzioni più numerose e migliori

  • Rendere le riunioni molto più brevi e produttive

  • Ridurre i conflitti tra i membri del team o i partecipanti alle riunioni

  • Stimolare l’innovazione generando rapidamente idee in maggior numero e migliori

  • Creare riunioni dinamiche e orientate al risultato, che invoglino le persone a partecipare

  • Andare oltre l’ovvio per scoprire soluzioni alternative efficaci

  • Individuare opportunità dove gli altri vedono solo problemi

  • Pensare chiaramente e oggettivamente

  • Vedere i problemi da angolazioni nuove e insolite

  • Fare valutazioni approfondite

  • Vedere tutti gli aspetti di una situazione

  • Tenere a bada l’ego e la difesa del territorio

  • Ottenere risultati notevoli e significativi in meno tempo

1 https://en.wikipedia.org/wiki/Six_Thinking_Hats





CONCLUSIONI

In chiusura del mio intervento, diviso qui sul sito BluPeak in due parti, ricordo che la tipologia degli attuali scenari di mercato richiedono alle organizzazioni forti capacità per realizzare cambiamenti costanti e regolari. Quindi i due approcci analizzati:

  • l’Agile Mindset, ovvero l’arte di fornire soluzioni flessibili e incrementali, accogliendo il cambiamento,

  • il Design Thinking, cioè l’arte del pensiero laterale, creativo e divergente, che permette di ottenere idee e prodotti radicalmente nuovi, in grado di soddisfare i clienti,

grazie alle caratteristiche precipue di ciascuno, possono essere convenientemente adottati e integrati per massimizzare le capacità di cambiamento richieste. Business Transformation, quindi, non appare più solo un termine ombrello, come viene diffusamente detto, che riunisce tutti gli strumenti necessari, bensì una vera e propria cultura del cambiamento organizzativo in grado di ottenere il successo.

Nell’era dell’Industria 5.0, definita anche come Economia dell’Innovazione, la comunità industriale internazionale ha riconosciuto che, oltre allo sviluppo tecnologico – più spesso digitale – è necessario puntare sulle persone e sui processi, adottando un approccio complesso e olistico alla trasformazione aziendale. Sia l’Agile Mindset (che include l’Agile Project Management e l’Organizational Agility) che il Design Thinking stanno fornendo agli stakeholder del cambiamento un vasto spettro di nuove competenze e di strumenti, opportunamente raccolti in toolkit.

Agile Mindset e Design Thinking sono stati creati per migliorare la capacità di innovazione nelle sfide di cambiamento dirompenti e con scenari incerti; entrambi hanno alternato periodi di moda a periodi di scetticismo, ma altrettanto entrambi sono oggi adottati dai grandi player e vengono riconosciuti, unanimemente, come efficaci tool per comprendere e gestire i cambiamenti.  

Agile Mindset e Design Thinking sono oramai ben sviluppati a livello globale, sufficientemente maturi e soprattutto costantemente perfezionati. Sia l’uno che l’altro sono basati su un approccio human-centered. Risultano inoltre in grado di potenziare le capacità di trasformazione e, nel contempo, possono essere fortemente rafforzati dalla vision e dalla strategia della Business Transormation stessa.

Last but not least, non possiamo non considerare la leadership: la richiesta di questo insieme integrato di capacità, allontanandoci dalle interpretazioni più facili e inefficaci di questa parola oramai abusata, sta diventando sempre maggiore proprio per guidare o sostenere il cambiamento. Importante è esplorarne anche le svariate e differenti dimensioni: leadership interpersonale, organizzativa, strategica, relativa alla mission nonché a sé stessi.

 

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

 

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