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Gruppo Tata: imprenditoria familiare, leadership etica e business transformation

Raccontiamo la storia e l’organizzazione di TATA, una realtà familiare che, nata nel lontano 1868, rappresenta oggi un conglomerato industriale il cui fatturato supera i 100 miliardi di dollari e che ha tra i propri slogan “Improving the quality of life of the communities we serve” e “Leadership with trust”.

Le origini e lo sviluppo del Gruppo Tata

Jamsetji Tata (foto dal sito)

Nel 1868, in piena epoca coloniale britannica, Jamsetji Nusserwanji Tata fonda a Bombay un’impresa che, inizialmente, opera nel settore tessile e che avrebbe lasciato un segno profondo nel panorama industriale dell’India.

Visionario e innovatore, il capostipite della dinastia industriale Tata era animato dalla profonda convinzione che la vera forza dell’industria risiedesse nella sua capacità di migliorare la vita delle persone.

Negli anni nascono così, tra le varie iniziative, Tata Steel, la prima acciaieria integrata dell’India, ma anche una centrale idroelettrica, un hotel di lusso – il Taj Mahal Palace Hotel a Mumbai – e l’Indian Institute of Science, università tecnico-scientifica creata da Jamsetji Tata investendo il proprio patrimonio personale con la ferma convinzione dell’importanza della ricerca scientifica e dell'istruzione superiore nei processi di trasformazione e di crescita sociale ed economica.

In tutti questi progetti si evidenziava un chiaro modello di sviluppo: un’industria guidata non solo dal profitto, ma da un fine più alto. In questo approccio ritroviamo la via che Adriano Olivetti ha cercato di applicare anche in Italia, purtroppo con diversa fortuna.

Tata Steel, ad esempio, fu pioniere nell’ambito del welfare aziendale: fin dal 1910 introdusse un orario di lavoro di 8 ore, assistenza medica, scuole, ferie pagate, fondo pensione, formazione professionale, bonus, congedo maternità, molto prima che fossero pratiche comuni nelle aziende.

Intorno all’acciaieria, Tata ha creato anche un esempio di urbanizzazione, la città di Jamshedpur, con strade ampie, alberi, aree verdi, strutture sportive e luoghi di culto religiosi per vari gruppi comunitari. Per realizzare il progetto sono stati coinvolti architetti come Frederick Charles Temple e Otto Koenigsberger, che applicarono il modello della “garden city”, pianificazione urbanistica in cui i quartieri e gli isolati sono circondati da "cinture verdi".

Fondata nel 1945 come TELCO (Tata Engineering and Locomotive Co. Ltd.), Tata Motors rappresenta il cuore industriale e simbolico delle trasformazioni del gruppo. Iniziò costruendo locomotive, ma già nel 1954, grazie a una joint venture con Daimler-Benz, entrò nel settore dei veicoli commerciali, procedendo per passi successivi alla diversificazione della produzione e alla creazione di una propria autonomia tecnologica.

Negli anni ’80, sotto la spinta di Ratan Tata, l’azienda iniziò a orientarsi al settore delle autovetture.

La Tata Indica, lanciata nel 1998, fu la prima vettura interamente progettata e prodotta in India destinata anche ai mercati internazionali.

Seguirono diverse acquisizioni strategiche: nel 2004 la sudcoreana Daewoo Commercial Vehicle, nel 2008 le prestigiose Jaguar e Land Rover.

A partire dal 2010, Tata Motors ha intrapreso un nuovo ciclo trasformativo, questa volta orientato a design, sicurezza e sostenibilità ambientale. Tata Motors oggi ha un proprio portafoglio di tecnologie ed è tra i leader in diversi settori, rappresentando un caso esemplare di trasformazione continua, in risposta alle sollecitazioni del mercato, ambientali e tecnologiche.

J.R.D. Tata (foto dal sito)

Altro esempio degno di essere citato è anche quello di Air India, fondata da J.R.D. Tata nel 1932 come Tata Airlines che, dopo la nazionalizzazione degli anni '50, nel 2022 è stata riacquisita da Tata Sons che ha intrapreso un importante piano di rilancio per portare il vettore a essere una compagnia aerea globale di livello mondiale con un cuore indiano.

La filantropia come struttura portante:

il ruolo delle Tata Trusts

Un aspetto peculiare del Gruppo Tata è che circa il 66% delle azioni di Tata Sons, la holding del gruppo, è controllato dalle Tata Trusts, istituzioni filantropiche che operano fin dai primi anni di vita delle industrie Tata. Questo assetto garantisce che la strategia industriale del gruppo sia guidata da un interesse collettivo, e non solo da quello privato.

Le Tata Trusts promuovono iniziative per l'istruzione, la salute, la cultura e i mezzi di sussistenza in India (foto dal sito)

Le Tata Trusts gestiscono un patrimonio superiore a 11 miliardi di dollari e donano oltre 400 milioni l’anno per progetti in sanità, educazione, ambiente, empowerment rurale e innovazione sociale. Ad esempio, durante la pandemia hanno stanziato oltre 180 milioni di dollari per strutture sanitarie, vaccini e dispositivi medici.

In campo educativo, promuovono iniziative come Internet Saathi (un programma di alfabetizzazione digitale che coinvolge oltre 1 milione di donne in aree rurali attraverso un modello "train-the-trainer", in cui le donne formate, le "Internet Saathis" insegnano ad altre donne della loro comunità a utilizzare Internet e i dispositivi digitali) e sostengono università e scuole d’eccellenza, come il già citato Indian Institute of Science. Nella sanità vengono finanziati ospedali oncologici e programmi di screening su larga scala. Nel settore ambientale, realizzano attraverso Tata Power campagne di sensibilizzazione energetica, riforestazione e risparmio idrico.

Infine, attraverso piattaforme come Tata Engage, oltre un milione di ore di volontariato vengono donate ogni anno da dipendenti, pensionati e familiari, creando una vera “cultura civica aziendale”.

Le Tata Trusts sono oggi guidate da Noel N. Tata, nominano circa un terzo del board di Tata Sons e godono di diritto di veto strategico. Ciò assicura un controllo etico sulla visione di lungo periodo, pur lasciando autonomia operativa al management.

Questo equilibrio tra famiglia, manager professionisti e filantropia rappresenta senza dubbio un unicum nel panorama industriale internazionale.

Conclusione: una lezione per il XXI secolo

La storia del Gruppo Tata è la dimostrazione concreta che l’impresa familiare può essere globale, etica e innovativa allo stesso tempo. In 150 anni, il gruppo ha attraversato imperi, crisi, liberalizzazioni e rivoluzioni tecnologiche senza perdere di vista la propria identità.

Grazie a una leadership stabile ma aperta al cambiamento, a un sistema di controllo fondato su Trusts filantropici, e a una costante capacità di anticipare e guidare le trasformazioni industriali, Tata è oggi un faro di capitalismo responsabile.

Nel tempo della transizione ecologica, delle disuguaglianze crescenti e dell’intelligenza artificiale, il Gruppo Tata ci ricorda che la trasformazione d’impresa non è solo questione di strategia, ma anche di scopo, comunità e coraggio etico.

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert

Nella foto di copertina: Tata Sons Private Limited, la principale holding del gruppo Tata


BLUPEAK - Business is culture

Quando la Business Transformation diventa disruptive

In un contesto economico e tecnologico in continua accelerazione, molte aziende si trovano a intraprendere percorsi di Business Transformation: ridefiniscono processi, digitalizzano attività, innovano modelli di servizio o produzione.

Non tutte le trasformazioni, tuttavia, sono della stessa portata. Alcune si limitano a migliorare ciò che esiste, altre invece cambiano radicalmente il modo in cui l’impresa opera, compete, crea valore e si relaziona con il mercato, portando una vera e propria “disruption”.

Le trasformazioni che rompono gli schemi

Come sottolinea l’analista americano Daryl Plummer di Gartner, il termine “disruption” è spesso frainteso o utilizzato impropriamente per descrivere qualsiasi innovazione. La vera disruption (traducibile con “rottura”, “svolta”) è qualcosa di più radicale, capace di alterare profondamente l’equilibrio di un’organizzazione, superando modelli consolidati e sostituendoli con nuove logiche di creazione del valore.

La disruption non è un semplice passo avanti ma un vero e proprio salto, che avviene quando l’azienda modifica integralmente processi, tecnologie e cultura, superando e rendendo obsoleti approcci e pratiche precedenti.

La disruption può iniziare come semplice trasformazione digitale o revisione strategica, ma finisce con lo stravolgere l’intero modello di business.

Ad esempio, una piccola impresa manifatturiera che adotta l’IoT per ottimizzare la produzione potrebbe, successivamente, evolvere vendendo servizi basati sui dati raccolti dalle macchine, trasformandosi in un fornitore di soluzioni intelligenti: non sta solo innovando, sta ridefinendo il proprio ruolo nella catena del valore. È questo il cuore della disruption.

Come riconoscere

una trasformazione disruptive?

Ci sono segnali frequenti che indicano quando una trasformazione sta modificando la natura dell’azienda:

  • tecnologie abilitanti non solo migliorative, ma che capaci di aprire nuove possibilità (come intelligenza artificiale, automazione avanzata, blockchain);

  • cambiamento delle competenze: alcuni ruoli si trasformano, altri spariscono, altri emergono;

  • evoluzione dei modelli di business: ad esempio passando da un modello “product-based” a uno “as-a-service”;

  • resistenze culturali interne, spesso sintomo di un cambiamento che va più a fondo del previsto;

  • ridefinizione dei confini organizzativi: supply chain più corta, canali digitali, fornitori integrati.

Il punto di non ritorno

Ciò che caratterizza una trasformazione disruptive è l’irreversibilità: una volta avviato il processo, non si può più tornare indietro e le vecchie metriche, i processi tradizionali, i modelli di leadership non sono più utilizzabili.

In questa fase l’organizzazione deve compiere scelte precise:

  • riformulare la propria proposta di valore;

  • abbandonare logiche verticali e gerarchiche in favore di modelli più agili e adattivi;

  • favorire una cultura che esplora, apprende, sperimenta.

Per questi passaggi è necessaria una leadership che non si limita a gestire il cambiamento ma che sappia guidarlo con visione e coraggio.

Disruption guidata o subita?

Alcune aziende, spiazzate da nuovi concorrenti o da cambiamenti tecnologici imprevisti, subiscono la disruption, altre, invece, riescono a guidarla dall’interno, anticipano le tendenze, sperimentano, si mettono in discussione prima che lo faccia il mercato.

È il caso della Apple, che è stata capace di proporre continuamente prodotti innovativi: non solo pc o cellulari, ma smartphone, tablet, lettori musicali, smartwatch e accessori. Anche realtà meno note hanno saputo reinventarsi, cogliendo le opportunità offerte da intelligenza artificiale, servitizzazione (modello di business che combina la fornitura di prodotti e servizi), piattaforme digitali.

Disruption come opportunità

Quando una business transformation diventa disruptive, l’azienda può resistere – e rischiare l’obsolescenza – o evolvere, aprendo nuove prospettive. Ma servono audacia, visione, elasticità mentale e capacità di interiorizzare nuove logiche di lavoro.

In un mondo in cui il cambiamento è la regola, le organizzazioni che assecondano la disruption non solo sopravvivono, ma diventano leader della nuova economia. Non si limitano ad adattarsi: definiscono le nuove regole del gioco.

Foto di copertina: Clker-Free-Vector-Images - Pixabay

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Calcolo quantistico e business transformation

Il calcolo quantistico esce, lentamente ma con continuità, dalla dimensione dei laboratori di ricerca e promette di trasformare diversi settori industriali (farmaceutica, finanza, energia, telecomunicazioni per citarne alcuni) con un notevole effetto economico. Uno strumento di business transformation che apre scenari di grande impatto e interesse.

Prossimamente, quando parleremo con gli addetti ai lavori del settore informatico dovremmo abituarci a utilizzare nuovi termini – qubit, bit quantistico: prove di una prepotente rivoluzione nel campo della potenza dei sistemi di calcolo.

La rivoluzione del calcolo quantistico

Gerd Altmann - Pixabay

Quando si parla di “Computer Quantistici” ci si riferisce a sistemi di calcolo basati sui principi della meccanica quantistica. A differenza di quelli classici, che utilizzano il codice binario e i bit (che possono assumere valore 0 o 1), i computer quantistici impiegano i qubit (quantum bit), che possono trovarsi in una sovrapposizione degli stati 0-1 o una combinazione di entrambi contemporaneamente.

In un computer quantistico possono aversi diverse modalità di funzionamento.

Sovrapposizione: un qubit può rappresentare sia 0 che 1 nello stesso momento, aumentando la potenza di calcolo potenziale.

Entanglement (intreccio): due o più qubit possono essere correlati tra loro in modo che lo stato di uno influenzi istantaneamente quello dell'altro; il fenomeno permette calcoli paralleli su larga scala.

Interferenza quantistica: combinazione che serve a rafforzare le probabilità dei risultati corretti e a cancellare quelli errati durante i calcoli.

Questa tecnologia consente lo svolgimento di molteplici calcoli in parallelo, con una velocità di elaborazione decisamente più elevata rispetto a quella dei computer finora utilizzati. In questo modo sono possibili analisi, simulazioni e previsioni complesse e, in alcuni casi, non realizzabili fino a oggi.

Questa situazione rappresenta ciò che qualcuno chiama la “seconda rivoluzione quantistica” che consente l’applicazione pratica della “prima rivoluzione”, basata sulle teorie di Einstein.

Gerd Altmann - Pixabay

I Computer Quantistici

come strumento di business transformation

La sperimentazione dei computer quantistici nasce agli inizi degli anni 2000. Oggi, dopo un quarto di secolo, questi sistemi stanno, lentamente ma inesorabilmente, uscendo dai laboratori ed entrano nel mondo dell’industria e dei servizi.

Nel farmaceutico, i computer quantistici possono garantire supporto alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci tramite simulazioni molecolari e chimiche, progettazione di molecole biologiche avanzate, simulazioni di reazioni complesse. L’obiettivo è di velocizzare i processi di analisi e sviluppo.

In ambito finanziario, le simulazioni quantistiche portano a migliorare la modellazione dei mercati e delle loro fluttuazioni, le analisi di rischio e l’ottimizzazione dei portafogli di investimento.

Nel settore dell’energia, l’impiego dei computer quantistici può migliorare notevolmente l’efficienza nella gestione delle reti e l’integrazione delle fonti rinnovabili, ottimizzando la gestione della variabilità dei consumi e della produzione.

Nelle telecomunicazioni, importante è il contributo della crittografia quantistica alla sicurezza dei dati. Inoltre, è possibile migliorare la gestione del traffico dati evitando fenomeni di congestione delle reti e di conseguenza migliorando velocità e qualità dei servizi.

Potenziale e sfide del calcolo quantistico

Gerd Altmann - Pixabay

Il valore aggiunto creato dall’impiego del calcolo quantistico è ancora oggetto di studio. Diverse stime riportano però percentuali e sfide decisamente interessanti.

Nel settore farmaceutico e chimico, con l’impiego di questa tecnologia, si prevede una riduzione dei tempi di sviluppo che va dal 12% al 30%, con un risparmio di miliardi di dollari.

Nel campo energetico, la riduzione dei costi di produzione utilizzando le fonti rinnovabili potrebbe oscillare tra il 20 e il 30%, mentre in ambito finanziario viene ipotizzato un incremento della redditività degli investimenti tra il 10 e il 20%; stessa percentuale per la riduzione dei danni economici derivanti da violazioni dei sistemi informatici.

In definitiva ci sarà un effetto tangibile sull’andamento dell’economia a livello mondiale, grazie a innovazione e incremento dell’efficienza produttiva.

Certamente il potenziale di questa nuova tecnologia è notevole, ma altrettanto importanti sono le sfide da affrontare, non solamente dal punto di vista tecnologico.

Le organizzazioni dovranno fare proprio il modo di gestire questo tipo di apparati, evitando le perturbazioni (ad esempio le variazioni di temperatura e le vibrazioni) che possono condizionarne il funzionamento. Anche gli hardware e i software impiegati da questo tipo di tecnologia presentano delle specificità rispetto a quelli che conosciamo oggi, così come i linguaggi di programmazione.

Si renderà necessaria la creazione di specifiche professionalità o l’evoluzione delle figure professionali che attualmente operano nell’ambito dell’informatica, riportando nuovamente alla ribalta il tema della gestione e della diffusione della conoscenza in ambito non solo accademico, ma anche aziendale.

Lo scenario è complesso e articolato, ma il viaggio che si prospetta è davvero rivoluzionario, come quelli intrapresi nel passato dai navigatori che hanno permesso la conoscenza e l’esplorazione di nuovi continenti.

 

Credit foto di copertina: Pete Linforth - Pixabay

 

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Processi, Problem Solving e Risk Management

Da marzo a giugno 2025 BluPeak è stata ospite di tre Live on Web organizzate da Blulink srl, con cui BluPeak condivide spesso momenti di crescita culturale. Abbiamo navigato nelle acque della trasformazione aziendale fornendo metodologie e strumenti pratici per affrontare le sfide organizzative e migliorare la gestione aziendale.

Riuniamo in questo articolo la sintesi dei 3 incontri.

A battezzare il breve ciclo è stato Stefano Setti, CEO&Founder di BluPeak Consulting, affrontando il tema della governance dei Processi per il miglioramento organizzativo: suo obiettivo è stato fornire una visione strategica del BPM, il suo valore per ottenere successo aziendale e maggiore produttività e il suo legame con la trasformazione digitale, laddove BPM sta per Business Process Management o Modelling o Measurement, ovvero l’insieme di metodologie, strumenti e tecnologie (software) per modellare, monitorare e migliorare i processi aziendali.

Inserendo nella nostra realtà il termine processo come una serie di operazioni atte a conseguire un dato fine, procedimento, metodo, stabiliamo che gli elementi del processo sono l’insieme di attività, correlate o interagenti, che riceve degli input e li converte in output con la creazione di un valore aggiunto.

Stefano ha portato la nostra attenzione sull’idea di ripetitività – di routine intesa in senso virtuoso –  e in più ha precisato che mai, nella gestione dei processi aziendali, dobbiamo trascurare la presenza delle persone e delle relazioni, ovvero l’aspetto umano – e al riguardo ci ha regalato una bellissima suggestione artistica con il dipinto del 1559 “I Proverbi fiamminghi” di Pieter Bruegel –, e così è arrivato al concetto di riproducibilità dei risultati, che permette ai Business Process di produrre valore aggiunto.

Con un efficace excursus, Stefano ha parlato di alcuni autori ed eventi che segnano passaggi significativi sui Business Process a partire dagli anni ’90, anni di fioritura e razionalizzazione di tale concetto, e con la vera svolta del 2000, quando la norma ISO 9001:2000 per la prima volta introduce un approccio basato sui processi all’interno dei sistemi di gestione della qualità (SGQ), rendendo il Business Process Management (BPM) un elemento chiave per la certificazione.

Il ciclo di vita del BPM prevede il Design (disegnare i processi esistenti e futuri), l’Esecuzione (implementare il processo, spesso con software BPM), il Monitoraggio (raccogliere dati sulle prestazioni), l’Ottimizzazione (migliorare i flussi per maggiore efficienza) e l’Automazione (digitalizzazione e RPA - Robotic Process Automation), mentre i KPI per misurare il successo del BPM sono l’efficienza operativa (per esempio il tempo medio di completamento di un processo), i costi ridotti (es.: diminuzione dei costi per errore umano), la Customer Experience (es.: tempi di risposta ai clienti), la Compliance & Governance (es.: riduzione dei rischi operativi).

La cultura del Business Process, ha precisato Stefano, è ancora estremamente viva e valida, anzi non ancora del tutto esplorata e sfruttata, ma attualmente il BPM può trarre ulteriore giovamento da una serie di nuove tecnologie e amplificazioni.  

Nella seconda Live on Web è intervenuto Andrea Calisti, Business Transformation Expert del Team BluPeak, parlando di strategie e strumenti di Problem Solving per evitare soluzioni improvvisate.

Ogni giorno ci troviamo ad affrontare problemi, ma cosa significa davvero risolverli? E come farlo senza improvvisare, appunto, costruendo soluzioni efficaci e durature?

Un problema nasce quando qualcosa interrompe il normale funzionamento di un processo: un disallineamento tra la situazione attuale e quella desiderata, un’incognita. Per superare l’ostacolo serve metodo ed entra in gioco il Problem Solving, ovvero la capacità di analizzare criticità e generare soluzioni sostenibili e replicabili.

Il percorso ideale? Seguire uno schema strutturato, come quello delle 8 discipline (8D):

  1. Costruire un team interdisciplinare

  2. Descrivere chiaramente il problema

  3. Applicare azioni di contenimento

  4. Analizzare le cause radice

  5. Definire e attuare azioni correttive

  6. Verificarne l’efficacia

  7. Standardizzare le soluzioni

  8. Estendere il know-how e valorizzare le lesson learned

Attenzione però a due insidie comuni: la fretta nel trovare una risposta, che porta spesso a soluzioni fragili, e la resistenza al cambiamento, che può bloccare la comprensione profonda del problema.

A supporto, strumenti come il Diagramma di Ishikawa o la tecnica dei 5 perché, utili per mappare e leggere in profondità le cause.

Anche l’Intelligenza Artificiale può contribuire: “mantenendone sempre il governo”, ci ha consigliato Andrea, può raccogliere dati, velocizzare l’analisi e facilitare la visualizzazione delle informazioni.

Infine, ogni problema risolto lascia una traccia preziosa: le lesson learned sono il patrimonio aziendale che ci aiuta a non ripetere gli stessi errori e a costruire una vera cultura del miglioramento continuo (Kaizen).
Perché – come ha ricordato Andrea – una soluzione efficace non basta: «Bisogna tutelarsi dalla sindrome del pesce rosso, cioè il non avere sufficiente memoria di ciò che si è fatto in passato.» 

Durante il suo intervento, l’ultimo del ciclo, Silvia Martellos, Business Transformation Expert di BluPeak Consulting, ha evidenziato l'importanza del risk-based thinking nel quadro attuale, sempre più segnato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità (VUCA).

Tale approccio non si limita alla gestione dei rischi per adempiere a obblighi normativi, ma rappresenta un cambio di mentalità: riconoscere nel rischio anche un’opportunità di miglioramento e innovazione. È quindi fondamentale integrarlo nella strategia complessiva dell’organizzazione, attraverso processi sistematici e strutturati.

Silvia ha inoltre sottolineato la rilevanza di una governance chiara, di un linguaggio condiviso e della comprensione della propensione e tolleranza al rischio dell'organizzazione e degli stakeholder chiave, affinché la gestione sia efficace e allineata al contesto.

Ha poi approfondito il tema dell’identificazione e analisi dei rischi, evidenziando l’utilità di strumenti operativi per valutare impatti e probabilità, e l’importanza di definire indicatori di rischio, piani di risposta.

Un punto centrale, ci ha ricordato Silvia, è l'attuazione proattiva delle strategie di gestione del rischio, con un aggiornamento continuo in base all’evoluzione del contesto e grazie al coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder.

Nell’ambito della trasformazione aziendale, il pensiero basato sul rischio si conferma ancor più centrale: le business transformation, difatti, sono iniziative strategiche e, per questo, maggiormente esposte al rischio. Per favorire il successo delle iniziative di business transformation, dobbiamo gestire in modo proattivo minacce e opportunità con rigore e costanza.

In conclusione, Silvia ha ribadito come un approccio maturo e consapevole al rischio possa diventare un vantaggio competitivo e contribuire in modo determinante al successo dell’organizzazione.

Immagine di copertina di Ylanite Koppens - Pexels

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Industria italiana e congiuntura economica: trasformazioni e opportunità

Negli ultimi mesi, l’industria italiana ha vissuto un calo consecutivo della produzione industriale, sollevando preoccupazioni su una possibile crisi strutturale. Si tratta di una situazione da analizzare con attenzione per comprenderne le cause, i possibili sviluppi e il ruolo decisivo che il settore della consulenza può svolgere nel supportare le aziende a “navigare” attraverso le sfide attuali e future.

Questa crisi è strutturale?

Secondo Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo intervistato dal “Corriere della Sera”, l’attuale calo della produzione non rappresenta una crisi di sistema, ma piuttosto un intreccio tra dinamiche cicliche e difficoltà strutturali in alcuni settori specifici, come l’automotive e gli elettrodomestici.

Da un lato, fattori come l’incertezza geopolitica, l’aumento dei tassi di interesse e le lungaggini nella negoziazione con la Commissione Europea hanno influito negativamente sugli investimenti. Dall’altro, alcuni settori si confrontano con sfide di lungo periodo legate alla transizione ecologica e alla competitività internazionale.

L’industria italiana, tuttavia, mostra segnali di resilienza. I settori della moda e della meccanica, ad esempio, pur affrontando difficoltà, hanno dimostrato capacità di adattamento e competitività. La moda sta lavorando per ritrovare un equilibrio tra offerta e prezzi, mentre la meccanica continua a rappresentare il pilastro del sistema produttivo nazionale.

Le trasformazioni geopolitiche e le ripercussioni sulla la catena del valore

Un elemento chiave del contesto attuale è il cambiamento della geografia produttiva. Paesi come Marocco, Tunisia e Romania stanno emergendo come nuovi centri di produzione, grazie a costi competitivi e a politiche di attrazione degli investimenti. Questo fenomeno mette alla prova il modello italiano, basato su una rete diffusa di piccole e medie imprese altamente specializzate, ma offre anche opportunità per ripensare le catene del valore e favorire una maggiore integrazione con mercati strategici.

Siamo ancora un popolo di inventori e innovatori?

Fonte: MIMIT

La risposta è senz’altro affermativa, com’è possibile anche verificare visitando l’esposizione “L’Italia dei Brevetti – Invenzioni e Innovazioni di successo” allestita a Roma presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (aperta nei fine settimana fino al 2 marzo 2025) per rendere omaggio ai 550 anni dalla pubblicazione del primo “Statuto dei Brevetti”, ad opera della Repubblica di Venezia (1474), e ai 140 anni dall’istituzione dell’Ufficio Brevetti dello Stato Italiano (1884).

Foto: A. Calisti

Visitando le diverse sezioni della mostra – che affronta i temi della mobilità, dell’energia, del biomedicale, dell’agricoltura, della manifattura e dell’aerospaziale – possiamo trovare brevetti storici, ma anche invenzioni attuali che testimoniano una notevole vitalità dei nostri centri di eccellenza nella ricerca pubblica e privata. 

Si tratta di un patrimonio di idee e di conoscenza che può garantire all’industria italiana la capacità di incontrare e sostenere le tematiche di sostenibilità e le richieste dei mercati con soluzioni nuove e originali.

Un patrimonio simile lo si può approfondire anche con la lettura della pubblicazione “Le Innovazioni del prossimo futuro – Tecnologie prioritarie per l’industria”, realizzata dall’AIRI (Associazione Italiana Ricerca Industriale) e che, dal 1995, raggruppa le tecnologie che esercitano un forte impatto socioeconomico e influenzano la “catena del valore” dei sistemi produttivi.

Foto: A. Calisti

Il ruolo della consulenza nella gestione del cambiamento

In questo contesto dinamico e complesso, il settore della consulenza può svolgere un ruolo di massima importanza, in diverse aree, per aiutare le aziende a governare le trasformazioni in atto.

La consulenza può supportare le imprese nell’analisi delle tendenze di mercato e nella definizione di strategie a medio e lungo termine. Ad esempio, aiutare le aziende a identificare i settori più promettenti, a diversificare i mercati di sbocco e a ripensare i processi interni e le catene di fornitura per ottimizzare i costi e ridurre le criticità di approvvigionamento.

La transizione verso un modello di business sostenibile è una sfida decisiva per molti settori. La consulenza può supportare le imprese nella valutazione e nell’implementazione di tecnologie green, nell’adozione di processi circolari e nell’accesso ai finanziamenti europei dedicati alla sostenibilità.

Gli investimenti in tecnologie digitali e nella trasformazione verso Industria 5.0 sono fondamentali per mantenere la competitività. La consulenza può guidare le aziende nell’adozione di soluzioni avanzate come l’intelligenza artificiale, l’automazione e l’Internet delle Cose (IoT), promuovendo al contempo una maggiore integrazione tra uomo e macchina.

La trasformazione aziendale richiede un cambiamento culturale e organizzativo. I consulenti possono affiancare le imprese nella gestione del cambiamento, offrendo programmi di formazione e sviluppo per migliorare le competenze del personale e favorire una maggiore adattabilità.

In un periodo di incertezza economica, è essenziale migliorare l’efficienza operativa. La consulenza può supportare le aziende nell’analisi e nell’ottimizzazione dei processi produttivi, identificando opportunità per ridurre i costi senza compromettere la qualità.

Per essere efficace, il settore della consulenza deve adattarsi alle esigenze specifiche delle imprese. Questo significa adottare un approccio proattivo e personalizzato, basato su una conoscenza approfondita dei settori di riferimento e su una stretta collaborazione con gli imprenditori. Inoltre, è fondamentale investire nella formazione continua dei consulenti stessi, per garantire competenze aggiornate e una capacità di risposta alle sfide emergenti.

Conclusioni

Nonostante le difficoltà, l’industria italiana ha dimostrato più volte una capacità di adattamento e recupero e possiede tuttora importanti capacità di innovazione. La combinazione di politiche industriali efficaci, investimenti mirati e un supporto strategico da parte del settore della consulenza può aiutare le imprese a superare l’attuale congiuntura e a cogliere le opportunità offerte dai cambiamenti in corso.

Guardare al futuro con una visione chiara e una strategia ben definita è la chiave per trasformare le sfide in opportunità e per garantire un ruolo centrale dell’Italia nel panorama industriale globale.

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Le 4 tappe del viaggio del cambiamento

Da marzo a dicembre 2024 BluPeak è stata ospite di Blulink in 4 webinar che hanno avuto come protagonista la Business Transformation. Il titolo del ciclo è “La meta del cambiamento… Un viaggio in 4 tappe”: la meta del cammino di trasformazione è stata concepita come la cima di una montagna, impegnativa eppure alla portata di tutti se per raggiungerla si usano adeguati strumenti culturali, cognitivi e metodologici.

Riuniamo qui di seguito la sintesi delle 4 tappe.

Ad aprire il percorso, col Campo base, è stato Stefano Setti, CEO&Founder di BluPeak Consulting, che ha quindi posto proprio i fondamentali della Business Transformation, ovvero avere una necessaria visione oltre il progetto.

Ma cosa BluPeak intende per Business, o Organizational, Transformation (che non è solo digital!)?

Stefano ci ha suggerito di partire dall’osservazione dell’azienda come un sistema complesso, assumendo quindi la visione da un punto più elevato. Ci ha poi indicato due parole chiave per meglio comprendere il senso di Business Transformation: Pain, inteso come dolore organizzativo ovviamente, ovvero spreco, disfunzione, non conformità, e Desire, da leggere come desiderio di miglioramento aziendale, quello a cui si arriva dopo la trasformazione. Ma, attenzione – ci ha detto Stefano – la trasformazione, parola polisemica e ricca di metafore, che in sé può essere passaggio, transizione, mutamento, cambiamento, guado, trasmutazione, attraversamento, metamorfosi, deve essere guidata senza mai perdere di vista la centralità della persona, la resilienza e la sostenibilità, tutti e tre concetti molto diffusi, troppo, forse abusati, ma che non per questo abbiamo paura di usare.

E di metafore, noi di BluPeak facciamo un uso quotidiano: per George Lakoff, sono il principale meccanismo mentale attraverso cui noi comprendiamo concetti astratti e mettiamo in atto ragionamenti astratti; per Stefano Calabrese sono meccanismi cognitivi che consentono all'individuo di conoscere il nuovo attraverso il noto, l’astratto mediante il concreto, il generale attraverso il particolare.

Alcune metafore a cui siamo particolarmente legati, per la loro potente e concreta efficacia esplicativa, sono quella del tappeto volante, della costellazione, del guado.

Tornando a rispondere alla domanda iniziale – Cos’è per BluPeak la Business Transformation? – Stefano ci parla di capacità (ovvero avere la visione) di combinare, integrare, unire i puntini (ecco perché la metafora della costellazione), ancor meglio di unire i puntini giusti di un grande mare di saperi. Cosa che è appannaggio di organizzazioni di ogni dimensione e di ogni settore merceologico.

Infatti proprio per poter parlare a tutti, abbiamo individuato un modello trasversale che si basa su 5 aree di impatto, che rappresentiamo con l’immagine dell'uomo vitruviano.

I saperi che noi consideriamo al servizio della Business Transformation sono: Project Management, Business Analysis, Agile Mindset, Enterprise Management, Risk Management, Power Skill, Change Management, Innovation Management, Knowledge Management, ritenendo che, in un percorso di trasformazione organizzativa, tali saperi debbano essere convenientemente armonizzati.

A supporto di ciò, alcuni robusti riferimenti culturali sono pensatori come Edgar Morin, che inventò il neologismo francese Reliance, (combinazione di relation e alliance, relazione e alleanza), ovvero l’arte di rimettere tutto insieme, propria della complessità; o Peter Senge, col suo concetto di Learning organization che è, soprattutto, il concetto culturale dell’imparare dagli errori e dai fallimenti. Ancora, un gigante che Stefano ha segnalato è Edgar Schein, che ha parlato proprio di cultura organizzativa, e infine Howard Gardner, grande psicologo cognitivista americano che ci ha aiutato a capire cosa vuol dire cambiare.

Riprendendo la metafora del tappeto volante, Stefano ha concluso che la trasformazione può intendersi come il partire da un punto e raggiungerne un altro ma elevandoci, sollevando lo sguardo per non correre il rischio di restare ancorati al ground, ovvero a un terreno che può presentarsi accidentato, pieno di ostacoli e di insidie. Per collocarsi a un giusto livello potrebbe essere utile allenarsi a salire e scendere: salire per vedere e scendere per portare risultati pratici. Dunque ideale è “pensiero e azione” (thinking and acting), perché essere sconnessi da una visione è pericoloso.

 

Al Campo 1 ci ha accompagnati invece Luca Costa, Business Transformation Expert del Team BluPeak, parlando di “Resistenza o Resilienza? Change readiness e aspetti culturali nella gestione del cambiamento”.

Partendo dall’analisi delle parole chiave contenute nel titolo – resistenza, resilienza, cultura e change readiness – Luca ci ha portati alle dimensioni della change readiness (profonda comprensione del cambiamento da effettuare, cultura e leadership come forze condizionanti, consapevolezza di risorse e competenze a disposizione, aver talento nel trovare da sé nuove soluzioni) che hanno una ricaduta su “Learning Anxiety” e “Survival Anxiety” (rif: rielaborazione del modello di Kurt Lewin), ovvero le due forze opposte che si attivano nei processi di cambiamento.

Luca ha poi consigliato che un approfondimento delle strutture culturali di un’organizzazione (rif.: modello culturale di tre livelli di Edgar Schein) è basilare per vagliare le reazioni, di resistenza o di resilienza, che si producono grazie a determinate modalità nella guida al cambiamento.

L’interpretazione di un caso pratico, infine, ha supportato il percorso descritto da Luca che, in chiusura del suo intervento, ha fatto cenno anche alla fiducia e alla motivazione, come imprescindibili elementi nella change readiness.

Andrea Calisti, poi, ci ha guidati al Campo 2, con l’intervento “Risk Management e Compliance: garantire la continuità nel cambiamento”.

La premessa del suo intervento è stata: il rischio di insuccesso è indissolubilmente legato a qualsiasi progetto di cambiamento aziendale; i rischi, totali o parziali, che dovrebbero essere affrontati in via preventiva, possono essere annullati o quantomeno mitigati.

Ma cos'è il rischio? Secondo il PMBOK – la “bibbia” del Project Management – è un evento o una condizione che, se si verifica, ha effetto su almeno un obiettivo del progetto. Gli obiettivi possono includere ambito, tempi, costi e qualità. Dunque il rischio è associato ai concetti di pericolo e di probabilità

Le categorie dei rischi sono molteplici: interni (es.: attività dei concorrenti, costi delle materie prime e dei servizi, ecc.) ed esterni (es.: ciclo di vita e qualità del prodotto, rischi finanziari, ecc.), e in base alla visione dei rischi, possono essere industriali, regolatori o finanziari.

Compreso quindi il rischio, Andrea è passato a parlare del Risk Management, ovvero un processo che si sviluppa secondo il noto Ciclo di Deming (P-D-C-A) e che consente alle organizzazioni di identificare, analizzare e gestire i rischi; esso deve essere continuo, integrato nella cultura aziendale, deve coinvolgere e responsabilizzare i vari livelli dell’azienda ed esaminare la dimensione temporale del passato, del presente e del futuro.

Un passaggio fondamentale fatto da Andrea è stato poi quello sulle norme internazionali, in primis la ISO 9001:2015 sui sistemi di gestione qualità e la ISO 31000:2018, che riguarda il sistema di gestione dei rischi, fornisce delle linee guida e può essere applicata a qualsiasi tipo di organizzazione e di settore.

A fianco alle norme ci sono gli strumenti operativi, che permettono di fare una corretta analisi dei rischi: nati in passato nel mondo militare e poi sviluppatisi anche in ambiti civili, tra essi ci sono l’analisi RAMS (Reliability, Availability, Maintainability, Safety), la FMEA (Failure Modes & Effects Analysis) e la L.U.R. (Lista Unica dei Rischi).

E allora cosa avviene dopo aver gestito tutti i rischi? Andrea ci ha detto che ne n ricaviamo un ampio bagaglio di informazioni – le lesson learned – che non deve assolutamente essere trascurato: è fondamentale che diventi parte integrante della conoscenza aziendale da applicare ai progetti successivi, innescando così il processo di miglioramento continuo.

 

E infine, nella quarta tappa, La vetta, Dalia Vodice, Trainer e Coach del Team BluPeak, ha parlato della leadership esercitata quando è in atto un cambiamento organizzativo, inteso più ampiamente come cambiamento culturale, cambiamento di relazioni.

A fronte di un termine alquanto abusato e talvolta quindi svuotato di significato, Dalia ha subito chiarito che per BluPeak parlare di leadership ha ancora senso, a patto che si aggiunga un valore di esplorazione, ricerca, curiosità. L'idea della sua presentazione è stata infatti quella di esplorare con occhi curiosi le dinamiche tra le persone che accompagnano la trasformazione.

Dall’etimo di radice indoeuropea “leith” alle tante modalità di leadership che oggi sentiamo citate (la servant leadership di Robert Greenleaf, l’humble leadership di Edgar Schein, i sei stili di leadership di Daniel Goleman, solo per citarne alcuni), Dalia ha citato il Pulse of Profession 2023 del Project Management Institute dedicato alla relazione tra power skill e project success. Tra le prime quattro power skill considerate fondamentali dai circa 3500 professionisti del project management intervistati, c'è la collaborative leadership.

La collaborative leadership esplicita la capacità di prendere decisioni lavorando con gli altri oltre i confini fisici, mentali, organizzativi, aziendali, metodologici, per co-creare un percorso, visto o anche solo intuito da uno – un leader tipicamente – ma poi realizzato dal gruppo. Leadership collaborativa significa anche creare fiducia e ambiente sicuro, consci delle difficoltà che una trasformazione può portare con sé, significa responsabilizzare e far crescere le persone.

Talvolta però è il contesto esterno alla nostra trasformazione che ci disorienta. Viviamo in un mondo che sta passando dal modello VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) al modello BANI (Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible): quale che sia lo scenario in cui ci muoviamo, VUCA o BANI o entrambi, l’accountability nella leadership deve tenerne conto, riuscendo a ritrovare la bussola o riuscendo a muoversi senza risentirne.

Una volta arrivati in cima, infine, è giusto festeggiare, ci ha detto Dalia. Ma raggiunta la vetta e celebrato il traguardo, possiamo mettere un punto e andare a capo? La sua risposta è stata negativa: in verità il cammino non finisce, perché una buona leadership sa che la trasformazione va mantenuta in atto e il gruppo in essere, per rendere stabile ciò che è stato raggiunto con fatica e impegno.



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