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Autostrada del Sole e Project Financing

“La domenica fiorentina si presentava finalmente serena dopo il nubifragio del giorno prima. Una pioggia sferzante che aveva costretto, il pomeriggio di sabato 3 ottobre 1964, le auto con a bordo il presidente del Consiglio, Aldo Moro, e l’amministratore delegato della società Autostrade, Fedele Cova, a procedere a passo d’uomo da Orvieto a Chiusi. Era l’ultimo tratto che mancava per rendere l’A1 – esattamente sessant’anni fa – l’autostrada che conosciamo: la dorsale d’asfalto, allora avveniristica, che univa per la prima volta le macroaree del Nord, del Centro e del Sud.” (Corriere della Sera, 3 ottobre 2024, a cura di Daniele Piazza)

Oggi un’opera simile, da 60 anni motore di sviluppo economico e di incontro tra le diverse aree d’Italia, costata in valuta attuale circa 3,5 miliardi di euro, sarebbe probabilmente realizzata in Project Financing.

Vediamo quindi di approfondire questa modalità di operare.

Un concept tutto italiano

L’idea di un’arteria stradale esclusivamente dedicata al traffico automobilistico, contrariamente a quanto si possa credere, non nasce con l’Autostrada del Sole e non proviene dall’estero.

Fonte: Wikipedia

La prima autostrada al mondo nasce tra il 1924 e il 1925 per collegare Milano ai laghi lombardi e permettere le prime gite turistiche in automobile (che all’epoca, essendo un privilegio per pochi, si prendeva a noleggio completa di chauffeur).



Fonte: Corriere della Sera

Passano circa 30 anni e il 19 maggio 1956, a San Donato Milanese (altro luogo reso celebre come culla del progresso industriale grazie all’ENI di Enrico Mattei), viene celebrata la posa della prima pietra della futura A1 alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi e dell’arcivescovo di Milano Giovan Battista Montini, futuro papa Paolo VI.

Dal 1956 al 1964, in soli 8 anni, vennero realizzati 755 chilometri di nastro d’asfalto per collegare Milano a Napoli con 113 ponti e viadotti, 572 cavalcavia, 38 gallerie, 57 raccordi, 56 aree di servizio.

L’idea di questa infrastruttura vede la luce tra il ‘53 e il ‘55 ad opera della SISI (Società Iniziative Strade Italiane, il consorzio aziendale composto da Fiat, Pirelli, Agip e Italcementi), che sviluppa il progetto di massima dell'autostrada con le sue tappe principali (Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli), ipotizzandone già il sostegno finanziario tramite la riscossione dei pedaggi. Nel 1955 la SISI trasferisce il progetto allo Stato. Si crea così una “congiuntura perfetta” di comunità d’intenti tra Governo, competenze tecniche e capacità delle maestranze, che ha permesso di realizzare un investimento di 272 miliardi di lire (pari ad attuali 3 miliardi e mezzo di euro circa).

Se oggi si dovesse realizzare un’opera simile, con un impegno economico corrispondente a quello citato, molto probabilmente si ricorrerebbe a una soluzione di Project Financing.

Il Project Financing: mezzo per lo sviluppo infrastrutturale (da utilizzare con attenzione

Il Project Financing è una metodologia di finanziamento a lungo termine impiegata in particolare per la realizzazione di progetti che comportano un rilevante impegno finanziario, come quelli relativi alle infrastrutture.

La caratteristica peculiare del Project Financing è che il rimborso del debito contratto per finanziare il progetto si basa esclusivamente sui flussi di cassa generati dall’infrastruttura oggetto del progetto (esempio un’autostrada, ma anche un tratto ferroviario, un aeroporto, un’infrastruttura energetica), anziché sulla solvibilità finanziaria dei soggetti promotori. Il progetto stesso rappresenta quindi la garanzia esclusiva per il finanziamento della realizzazione, in grado di ripagare il debito e di generare rendimenti per gli investitori.

I principali attori coinvolti nel Project Financing sono gli sponsor, gli istituti finanziari, le autorità pubbliche e le società fornitrici.

Gli sponsor sono di solito aziende o consorzi che si occupano della concezione, dello sviluppo e della gestione del progetto.

Le banche o i fondi d’investimento rivestono il ruolo di finanziatori, valutando la sostenibilità economica del progetto e definendo le modalità di erogazione del prestito (che spesso copre la maggior parte del fabbisogno finanziario).

Le autorità pubbliche sono coinvolte nell’assicurare il corretto, ma celere, sviluppo dell’iter burocratico collegato al progetto, così come nell’offrire incentivi fiscali, concessioni, garanzie o contributi a fondo perduto per favorire la realizzazione di opere che rispondano a esigenze collettive, come infrastrutture sanitarie, stradali o scolastiche.

Per lo sviluppo del progetto, in caso di esito positivo dell’analisi di fattibilità su rischi, costi e benefici, viene creato appositamente uno “Special Purpose Vehicle” (SPV), ovvero una società che ha lo scopo di gestire l'iniziativa e di detenere il debito e gli attivi del progetto. La SPV agisce come veicolo legale e rappresenta l’entità giuridica responsabile di tutti i contratti e gli obblighi legati al progetto. Tale aspetto è importante poiché protegge gli sponsor dai rischi.

Lo SPV raccoglie il capitale necessario, realizza il progetto e gestisce l’infrastruttura o l’impianto, generando i flussi di cassa necessari a ripagare il debito. Il progetto deve quindi dimostrare di essere autosufficiente e capace di generare reddito nel lungo termine.

Il Project Financing ha diversi vantaggi:

  • permette la realizzazione di opere complesse senza gravare sui bilanci aziendali degli sponsor o sulla spesa pubblica;

  • facilita l’attrazione di capitali privati anche per progetti pubblici, favorendo la collaborazione tra pubblico e privato.

Tuttavia, il Project Financing presenta anche delle problematiche che devono essere prese in esame con attenzione:

  • il processo è complesso e richiede studi di fattibilità dettagliati e una rigorosa gestione dei contratti;

  • i costi di transazione, consulenza e monitoraggio possono essere elevati, e i tempi di negoziazione con le banche o i fondi sono spesso lunghi.

  • se il progetto non genera i flussi di cassa previsti, possono sorgere difficoltà nel rimborso del debito, esponendo gli investitori a perdite.

Quattroruote sul tracciato della BreBeMi (A35) rispetto alla A4

Un esempio relativo all’ultimo rischio citato è sicuramente quello dell’autostrada A35 (la cosiddetta BreBeMi): i bassi flussi di traffico dovuti al costo dei pedaggi, nonostante la minore lunghezza del percorso rispetto all’alternativa rappresentata dall’utilizzo della preesistente A4, mettono a rischio la redditività del progetto.

CONCLUSIONI

Il Project Financing rappresenta sicuramente uno strumento strategico per finanziare progetti di grande rilevanza, i cui rischi devono tuttavia essere tenuti nella giusta considerazione dai Project Manager chiamati a gestire questo tipo di iniziative.

Le modalità operative permettono di attrarre risorse private in settori dove la spesa pubblica non è sufficiente o dove si punta a ridurre il debito pubblico; tuttavia, lo studio preliminare di fattibilità e l’analisi dei rischi devono essere condotti con particolare attenzione, soprattutto in proiezione lungo il ciclo di vita del progetto, per valutarne correttamente la redditività rispetto agli investimenti da rimborsare.

Con l’aumento delle esigenze infrastrutturali e lo sviluppo di tecnologie verdi, il Project Financing è probabilmente destinato a crescere, diventando sempre più un pilastro per il finanziamento di progetti innovativi e sostenibili. Questa situazione genererà la necessità di avere figure professionali correttamente formate non solo nella gestione di questi progetti, ma anche, come detto, nello sviluppo degli studi di fattibilità e delle analisi di rischio preliminari.

Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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L’Italia sul K2

31 luglio 1954: una conquista che è la storia di un progetto organizzato e gestito in modo vincente


Il 31 luglio 1954 l’Italia è ancora alle prese con le ferite della guerra. Dall’altra parte del mondo, a più di 8000 metri di altezza, con temperature che arrivano a 30° sotto zero, un gruppo di coraggiosi compie un’impresa che, a distanza di 70 anni, per le condizioni e le modalità con le quali è stata preparata e realizzata, rappresenta un esempio di progetto vincente che merita di essere ricordato con legittimo orgoglio e qualche riflessione.

Prendendo ad esempio i Giochi Olimpici di Parigi 2024, sarebbe semplice partire a fare qualche considerazione sul Project Management applicato all’organizzazione di grandi eventi e alla costruzione della preparazione atletica degli sportivi. Noi, invece, vogliamo riflettere su un evento che, settant’anni or sono, in un’Italia profondamente diversa da quella di oggi, ha avuto una risonanza mondiale e ha portato la nostra nazione nel consesso di quelle che hanno saputo “domare” le grandi vette del mondo, quelle cime tra India e Pakistan che, ancora oggi, attraggono scalatori e scalatrici da tutto il mondo che, in modo discreto e lontano dal trash e dal chiasso dei social network, affrontano sfide estreme.

La storia della conquista italiana del K2 è innanzitutto quella di un progetto e di una squadra costruita e guidata da un personaggio fuori dal comune.

Ardito Desio (in foto - 1954 Wikimedia), geologo ed esploratore friulano dalla vita lunga e ricca di esperienze (è scomparso a 104 anni, dopo aver compiuto studi e ricerche in patria e all’estero e aver ricoperto prestigiosi incarichi in istituzioni italiane e internazionali), è l’artefice della costruzione di questa impresa e può essere considerato un Project Manager “ante litteram” per le capacità di coinvolgimento degli stakeholder e di organizzazione messe in atto.

Nel preparare l’impresa Desio tiene ben presente tre aspetti che possono portare al successo del progetto: uomini, attrezzature, esperienza.

Innanzitutto gli uomini della squadra. Desio li sceglie tra scalatori esperti e giovani promesse della montagna e li sottopone a un duro processo di selezione medica per verificarne le condizioni fisiche e la capacità di sopportare le condizioni estreme che troveranno sul posto e che dovranno affrontare durante le scalate, anche solo per raggiungere il campo base. In questo processo vengono coinvolte équipes mediche di fama e utilizzate attrezzature sofisticate come la camera ipobarica per simulare le condizioni con cui gli uomini si sarebbero dovuti confrontare e le reazioni dell’organismo.

Anche le attrezzature e il materiale tecnico furono particolarmente studiati per l’occasione. Desio riuscì a coinvolgere nell’impresa un gruppo di 250 aziende italiane che misero a disposizione la migliore esperienza per mettere a punto materiali e attrezzature in grado di consentire di sopravvivere alla carenza di ossigeno e alle temperature estreme. Per il mondo industriale italiano che stava uscendo dalle ferite della guerra fu una sfida a giusto titolo paragonabile alla conquista della luna che avverrà oltre dieci anni dopo. Fu anche la spinta per compiere ricerche su tecnologie e materiali che saranno negli anni successivi messi a disposizione del grande pubblico.

Infine la preparazione basata sull’esperienza di altre spedizioni simili e sullo studio del contesto. Desio analizza con rigore scientifico la montagna (l’aveva già vista anni prima partecipando come esperto a una spedizione sugli stessi luoghi organizzata dal Duca di Spoleto) e le relazioni delle spedizioni realizzate da altri gruppi (gli americani nel 1953 fallirono la conquista della vetta per un grave incidente in cui perse la vita un componente della spedizione, cosa che fece desistere il gruppo), per capire le tattiche, i materiali e le attrezzature scelti.

Sul campo, poi, Desio ha la capacità di guidare il gruppo e mantenerlo coeso anche nelle difficoltà. Mario Puchoz morì improvvisamente per un edema polmonare durante la salita al campo base. L’ultima fase della conquista fu estremamente drammatica per la mancanza di ossigeno, risolta dall’impegno e dall’abnegazione di Walter Bonatti e del portatore Mahdi. Il telegramma con cui Desio annuncia la riuscita dell’impresa non riporta i nomi degli scalatori (Lacedelli e Compagnoni) che arrivarono in vetta, a sottolineare che la vittoria appartiene a giusto titolo a tutto il gruppo.

Fu una grande vittoria, sia sportiva sia scientifica, costruita dal punto di vista tecnico e logistico in modo impeccabile, avendo a disposizione risorse molto diverse da quelle utilizzabili dagli alpinisti di oggi. Un’impresa di squadra che ha avuto una risonanza epica e che ha dato a un’Italia povera e ancora ferita dalle conseguenze della guerra una grande spinta morale, legata alla certezza di essere tornati a contare nel mondo, vincendo con rispetto e impegno la “montagna degli dei”.





Foto di copertina: Daniel Born su Unsplash

Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Fotografia&BluPeak

“Ci viene quello che c’è”: riflessioni in occasione della giornata mondiale della fotografia (19 agosto 2024)



La mia riflessione parte da un aneddoto vero.

A Reggio Emilia, tanti anni fa, alcuni decenni prima dei cellulari e delle macchinette automatiche per fototessere, c’era un famoso studio fotografico nella centrale via Emilia, punto di riferimento per chiunque avesse bisogno di foto per i documenti, oltre che per i matrimoni e gli altri eventi in cui un fotografo professionista era imprescindibile.

Un’anziana signora dovette rinnovare la foto per la carta d’identità, entrò in questo spazio sacro dalle luci soffuse, macchine già montate sui treppiedi e puntate sui fatidici sgabelli, dove il soggetto doveva accomodarsi e assumere la posa che il fotografo, burbero e sbrigativo sacerdote di questo tempio d’altri tempi, ti faceva assumere, tipicamente con spalle diagonalizzate alla Lilli Gruber e testa reclinata come le sue dita impostavano, usando il tuo mento come un joystick. Dopo la trepidante attesa dello sviluppo, il fotografo consegnò alla signora le foto. Guardandole, la signora disse al fotografo, in dialetto come si usava allora anche fra persone istruite (anche se ora lo traduco): «Come sono venuta brutta!»
E il fotografo, con schiettezza e sempre in dialetto, rispose: «Signora, ci viene quello che c’è!»

È proprio vero che in fotografia “ci viene quello che c’è”?

Io penso di no, ed è proprio questa illusione la trappola più affascinante e intrigante della fotografia: la foto non può essere la resa asettica di qualcosa che c’è, non è documentazione, è sempre lettura, una lettura unica, istantanea, fatta da un soggetto sempre interferente, manipolante e interpretante. Questo spazio meraviglioso e ambiguo ricorda quello dell’interpretazione musicale: la realtà fotografata sta alla foto come lo spartito sta all’interpretazione, che resta unica, irripetibile, non confondibile con nessuna altra e intrecciata con i fili della vita dell’interprete.

La diffusione dei cellulari, con i loro prodigiosi algoritmi aggiusta-tutto (che rappresentano davvero un miracolo di efficacia, che lascia ammirato chi ha imparato la fotografia misurando la luce con un esposimetro e scervellandosi nell’impostazione di tempi e diaframmi), ha amplificato questa illusione, quella di mostrare quello che c’è.

E probabilmente l’abitudine compulsiva a scattare immagini su immagini proiettate verso una condivisione social – alimentata dal “tanto non costa niente” e dalla citata sorprendente qualità tecnica – aggrava questa falsa cognizione di mostrare quello che c’è. Elio e le Storie tese, nel pezzo Lampo, hanno reso molto bene questa follia di scatti: “Con la tua digitale pixellata di pixel, moderna […] sai che mi hai davvero importunato con la dagherrotipia?"

"Billie Ray", di Maria Rivans

Tutto questo c'entra con il nostro mestiere? Io penso di sì, profondamente.

Che agiamo come formatori, o come consulenti, o come coach, come analisti per la comprensione dei bisogni, come leader di un team o di un progetto, noi facciamo continuamente fotografie, che in nessun caso possono mostrare quello che c’è. In questo nostro essere fotografi delle relazioni umane e delle organizzazioni nel cambiamento, siamo lettori e interpreti, interferiamo e interagiamo, perturbiamo, siamo parte del sistema che osserviamo. Ecco perché le antenne dell’etica devono essere sempre ben accese: il mito della neutralità non esiste (né, credo, sarebbe desiderabile): la nostra lettura rielabora sempre. E ringrazio perché è così!

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

Credit fotografico: Gabriella Caselli


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Il Leader: chi è (era) costui?

Riflessioni, perché non sono mai abbastanza, sulla figura e sul concetto di Leader e di Leadership, elementi sempre essenziali nel governo delle aziende come nella gestione dei progetti.

Partiamo dai fatti

Se consideriamo la definizione ufficiale del vocabolario Treccani, il concetto di “Leader” è messo in relazione alla politica e allo sport.

Nel primo caso il leader è il capo di un partito, di un movimento d’idee, di un’organizzazione, di un gruppo. Nel secondo caso il leader è il concorrente (atleta o squadra) che è al primo posto in classifica durante la disputa di un campionato o comunque di una gara con più prove, oppure il cavallo che in ogni circostanza corre davanti agli altri, li conduce e serve loro da guida.

Ci perdoneranno gli accademici della Treccani se in questo contesto, e rifacendoci al mondo delle aziende che ben conosciamo, declineremo il concetto di “Leader” in forma diversa.

Innanzitutto, il leader non è (sempre) chi occupa una posizione apicale nell’organizzazione, men che meno il “padrone” o il CEO dell’azienda. Certamente per queste figure la leadership dovrebbe essere una dote innata e necessaria ma, purtroppo, ciò non sempre si verifica.

Il leader dovrebbe necessariamente dare prova di avere ed esercitare le seguenti capacità:

  • conoscenza dell’azienda;

  • conoscenza del prodotto e del mercato;

  • visione a medio/lungo termine;

  • capacità di trasformare la visione in scelte operative coinvolgendo e motivando i collaboratori.

A. Olivetti

Una volta l’imprenditore conosceva i propri collaboratori (dall’ingegnere al semplice operaio) per nome. Aveva ben presente sia le capacità tecniche di ciascuno, sia le singole situazioni familiari e personali, e sapeva impegnarsi per mettere ciascuno nella condizione di rendere al meglio nel lavoro quotidiano. Allo stesso tempo, l’imprenditore autentico, prima di accedere alle funzioni di vertice dell’azienda, faceva una robusta gavetta partendo dal basso, per conoscere e toccare con mano i vari aspetti della produzione. Così è stato, ad esempio, per Adriano Olivetti o, in tempi più recenti, per il compianto Giovanni Alberto Agnelli (che oggi, se non fosse troppo prematuramente scomparso, avrebbe 60 anni). Questa è leadership esercitata a livello delle persone.

L’imprenditore deve conoscere il mercato, quello interno come quello di esportazione e sapere quali scelte compiere non solamente per moltiplicare i dividendi degli azionisti, ma soprattutto per mantenere e creare lavoro e valore d’impresa. A tale proposito ci sembra quanto mai opportuno ricordare nuovamente Adriano Olivetti e la storia della sua azienda che, per contrastare i momenti di crisi e non licenziare, ha costantemente cercato sbocchi in nuovi mercati, rimanendo attenta alle innovazioni di prodotto e alla diversificazione del business (per esempio nel settore dei mobili per ufficio). Allo stesso modo la vision dell’impresa e del contesto è necessario che vada oltre il breve termine e la logica degli incentivi ottenibili dai singoli governi, rimettendo al primo posto la capacità di fare innovazione (di prodotto come di processo) e di gestire il rischio di impresa. Questa è leadership etica.

D. Giacosa

Sulla conoscenza del prodotto e sulla capacità di sviluppare prodotti innovativi e in linea con le aspettative dei clienti, non possiamo non ricordare Dante Giacosa e Vittorio Ghidella, creatori di alcuni tra i modelli più innovativi della Fiat: Topolino, 600, 500, 128, 127, Uno, Croma (con le sorelle Alfa Romeo 164 e Lancia Thema).

Questa è leadership tecnologica.

Foto: Emslichter - Pixabay

Infine, come già accennato, il leader deve proiettarsi nel futuro. Saper guardare alla luna e non al dito e, soprattutto, voler raggiungere la luna e motivare i collaboratori verso questo obiettivo. Su questo concetto calza perfettamente la frase dantesca: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” (Divina Commedia, XXVI canto dell’Inferno). Questa è probabilmente la dimensione più autentica della leadership.

Leadership: concetto quanto mai essenziale e necessario alle aziende

per esser competitive

Il leader autentico è quindi una persona che, come si dice in gergo giornalistico, è sempre “sul pezzo”, sia nella gestione delle dinamiche interne all’azienda, sia nelle relazioni con il contesto esterno.

Nel progetto, il Project Manager dovrebbe avere le diverse dimensioni della leadership distillate al massimo livello, non solamente per far lavorare correttamente e in modo coordinato verso gli obiettivi comuni i diversi componenti del team di progetto (che spesso sono fisicamente lontani o possono appartenere ad aziende diverse), ma anche per gestire in modo corretto le relazioni con lo “sponsor” e i mutamenti di scenario.  

Le aziende competitive e di eccellenza dovrebbero avere leader veri nelle posizioni strategiche a qualsiasi livello: apicale, ma anche operativo.

La leadership è inoltre una dote fondamentale per poter gestire efficacemente l’ingresso dell’Intelligenza Artificiale nelle organizzazioni, evitando sconvolgimenti di ruoli e di clima aziendale… Ma questa è un’altra storia.

Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Certificazione PMP® del PMI: testimonianze a favore

BluPeak crede fermamente nel valore della certificazione PMP® (Project Management Professional) del PMI (Project Management Institute), tanto che proprio i percorsi di preparazione per il suo conseguimento sono una delle attività della nostra Academy.

A tal riguardo ci ha fatto molto piacere raccontare la testimonianza di due professionisti divenuti PMP® dopo un percorso curato da BluPeak: Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti.

Entrambi lavorano presso Tesar SpA:

Raffaella Battaglia è Delivery Manager e Mauro Manzetti è Chief Operating Officer.

Tesar SpA da più di 30 anni fornisce sistemi per la raccolta dei dati, per la pianificazione, il controllo e la gestione della produzione oltre che della qualità dell’industria.

Raffaella, che lavora con un team di quindici persone, coordinando anche professionisti esterni, ci spiega che «in Tesar, il ruolo del Delivery Manager negli ultimi anni è cambiato, evolvendosi verso una gestione di tipo PMO; significa che al coordinamento si aggiunge la collaborazione, la facilitazione: fornire gli strumenti, le best practice e i template necessari per organizzare e pianificare al meglio la gestione dei progetti. E in effetti è questo il grosso obiettivo che mi do quotidianamente: Kaizen, un miglioramento continuo, per ottenere il quale ho sviluppato, soprattutto dopo il percorso per la certificazione, intelligenza emotiva, soft skill e la capacità di essere “vision oriented”, con un focus quindi sul valore che viene consegnato anziché su ciascun singolo deliverable.»

Il Chief Operating Officer, invece, cioè Mauro, è «il riferimento manageriale di tutti i responsabili di funzione. Il mio principale compito in Tesar è fare in modo che le attività operative si svolgano con fluidità ed efficienza secondo le regole stabilite e applicando la strategia aziendale.» Oltre al coordinamento dei team leader, Mauro si pone come servant leader a supporto di tutti i colleghi, e dunque mette in pratica significative capacità organizzative e di problem solving, oltre che la negoziazione e poi l’active listening, il conflict management e il mentoring, ovvero skill proprie della comunicazione.

Ma proviamo a capire cos’è scattato in loro, tanto da decidere di affrontare il percorso che li avrebbe portati al conseguimento della certificazione PMP®.

«In primis la voglia di migliorarsi», ci dice Mauro. «Noi proponiamo soluzioni software volte a gestire il miglioramento continuo, ed è in quest’ottica, per offrire servizi sempre più validi ai nostri clienti, che abbiamo deciso di intraprendere il percorso per la PMP®. L’altro obiettivo è stato quello di standardizzare le nostre procedure e documentazioni in linea con le migliori pratiche di project management riconosciute a livello internazionale.»

Quando fu proposto il corso per la certificazione, Raffaella aveva appena cambiato ruolo, da PM a manager di un team numeroso. «Ciò rappresentava per me una sfida, ulteriori energie da mettere in gioco, responsabilità, stress e soprattutto tanto lavoro. Il PMP® avrebbe assorbito una consistente dose di queste preziose energie, perciò risposi No grazie, come se avessi accettato!» Purtroppo per lei, però, quest’opzione non era prevista e il suo capo la iscrisse ugualmente…  

I momenti ostici non sono mancati per entrambi e più volte hanno pensato di lasciar perdere: la cosa più gravosa fu, naturalmente, conciliare il già sostenuto ritmo e le responsabilità lavorative con lo studio. «Di aiuto è stato il fatto che abbiamo sempre cercato di studiare in gruppo o comunque di fare sessioni di test insieme», racconta Mauro. Mentre Raffaella, con la sua schiettezza, ci confessa che a mo’ di mantra ripeteva Ma chi me l’ha fatto fare?, e poi «aggiungevo l’accusa Accidenti a te! rivolta al mio capo, a cui avevo spiegato che non sarebbe stata una passeggiata di salute e col quale studiavo di notte via Teams.»

La disponibilità costante da parte dei docenti di BluPeak – a cui Raffaella e Mauro riconoscono grande competenza –, il confronto con loro, i consigli e i suggerimenti ricevuti per arrivare preparati all’esame, oltre che il rapporto instaurato con i colleghi delle altre aziende – un mix fra collaborazione e sana competizione professionale –, sono stati un insieme di elementi che secondo la loro opinione hanno giocato a vantaggio.  

E allora alla fine, dopo, «la soddisfazione per il risultato è stata tanta e lo sforzo fatto è valso assolutamente la pena!». Questa è l’affermazione di Mauro, sulla cui scia Raffaella ci regala un racconto molto personale e coinvolgente.

«Ritrovarsi alla soglia dei cinquant’anni con un ruolo da manager appena assegnato, una famiglia e una bambina di nove anni che, giustamente, richiede tempo e attenzioni, è stata la sfida più grande. Mi ritrovavo a studiare ovunque. Man mano che andavo avanti, però, mi appassionavo agli argomenti e all’idea di ottenere una certificazione così prestigiosa, io che avevo mollato l’università… Ecco, per me rappresentava anche un’opportunità di riscatto! Quasi tutte le sere mia figlia si addormentava con l’immagine della mamma che studiava. Ricordo un giorno in cui ero particolarmente esasperata e sbottai: “Basta! Non ce la faccio più, mollo qui!”. E mia figlia mi disse: “Mamma, e tutto lo studio che hai fatto finora? Vuoi davvero buttarlo nel secchio?!” Fu una bella lezione e soprattutto il giusto stimolo ad andare avanti, per me stessa e per ciò che lei avrebbe voluto vedere in sua madre: una che non molla! Ammetto che quando arrivò il risultato del superamento dell’esame, piansi…»

Sia per Mauro che per Raffaella, già durante il periodo di studio è cambiato il loro approccio agli impegni aziendali di ogni giorno, perché, di fatto, come dice Mauro, «è stato mettere nero su bianco, con procedure anche abbastanza articolate, il lavoro quotidiano. Un processo che ti arricchisce in quanto ti procura gli strumenti per interpretare più approfonditamente ciò che avviene durante le varie fasi di un progetto.»

«Mentre studiavo», ci racconta Raffaella, «si consolidava sempre di più in me il convincimento che i temi della PMP® devono necessariamente essere applicati per ottenere il successo di un progetto. Ho cambiato approccio mettendomi ‘al servizio’ dei miei collaboratori nel facilitare la gestione e la comunicazione fra i vari reparti aziendali. Non a caso, ora professo anche ai nuovi arrivati le tecniche di gestione dei progetti come insegna il PMI.»

Ringraziando ancora Raffaella Battaglia e Mauro Manzetti per il tempo, la disponibilità e la trasparenza, chiediamo loro di salutarci con un invito rivolto a chi fosse titubante nei confronti della certificazione.

«Col senno di poi è più facile dirlo», ammette Raffaella, «ma vi garantisco che è così: l’esame è impegnativo ma fattibile; non occorre imparare a memoria, bensì capire bene i processi e le logiche di base. Consiglio: condensate lo studio evitando di procrastinare l’esame; quindi appena si è studiato tutto, è bene pianificare la data dell’esame e continuare la preparazione con quell’obiettivo. Quando lo raggiungerete, vi sentirete forti e vi verrà voglia di pensare al successivo… Attenzione: crea dipendenza!»

E Mauro: «È sicuramente un percorso oneroso e non banale, ma altrettanto sicuramente accresce la conoscenza e gli strumenti per operare più efficacemente sui progetti. Un suggerimento è quello di ritagliarsi dei tempi tutti i giorni, anche solo mezz’ora, per studiare e fare i test. Credetemi, benché sembri impossibile, citando Gene Wilder vi dico: Si può fare!»

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DUE STAGISTI IN BLUPEAK

Dal 19 marzo fino a metà giugno 2024, per un monte complessivo di 400 ore, Federico Corsini e Mattia Zini sono ‘ospiti’ di BluPeak per un tirocinio

Si tratta di due giovani del corso ‘Gestione digitale d’impresa’ dell’ITS Maker - Istituto Superiore di Meccanica, Meccatronica, Motoristica e Packaging dell’Emilia Romagna, durante il quale hanno affrontato con i docenti di BluPeak i moduli di Problem Solving, di tecniche di Project Management e gestione della commessa, e di Metodologia FMEA.

Sono entrambi estremamente vivaci e capaci, ciascuno con le proprie peculiarità: Mattia si definisce «una persona intellettualmente curiosa», con una grande passione per teatro e letteratura, cosa che gli ha permesso di sviluppare doti di empatia, nonché una notevole immaginazione; Federico, coinvolto in svariate attività di volontariato, ama il cinema, l’escursionismo e lo sci alpino.

Abbiamo stimolato in loro una serie di considerazioni per capire l’approccio di menti giovani all’universo del Project Management e del Problem Solving.

Naturalmente partiamo proprio dall’idea che Federico e Mattia avevano del ‘progetto’ prima di iniziare a esplorare il mondo del Project Management.

Mattia Zini

«Prima di approcciare al Project Management pensavo al progetto come una ‘nuova idea’», dice Mattia, «sviluppata da una o più persone nel processo di creazione di un prodotto o di un servizio nuovo, o anche nell’aggiornamento di uno esistente. Poi ho scoperto anche prospettive differenti: il progetto visto come un viaggio esplorativo ed educativo, e il suo significato etimologico, nonché l’uso di ogni singola parola impiegata all’interno di un progetto. Il termine stesso di progetto, nella sua accezione semantica, indica ‘gettare in avanti’; questo mi fa immaginare una startup di giovani, dove la nuova idea concepita viene metaforicamente lanciata sul mercato designato, insieme ai calcoli e agli eventuali prototipi, con lo scopo di soddisfare un bisogno del mercato, trasformando così la nuova ispirazione in qualcosa di concretamente vivo.»

Federico Corsini

Per Federico, invece, l’idea di progetto che aveva inizialmente era forse più intuitiva, «legata all’utilizzo comune del termine nei diversi contesti ordinari, come per esempio: ‘Quali sono i tuoi progetti per il futuro?’ o ‘Quali sono i progetti per l’estate?’. In entrambe le circostanze, si tratta principalmente di un’idea o di un proposito più o meno definito per raggiungere uno scopo prefissato. Questa concezione è legata al significato di “progetto” che ho appreso dopo l’esplorazione dei metodi di Project Management, anche se con qualche differenza: in un progetto ben strutturato, infatti, nulla dev’essere lasciato al caso. Per garantirne il successo, oltre a un’attenta pianificazione, è necessario definire il budget, il team, lo scopo da raggiungere e i limiti temporali.

L’etimologia del termine progetto, dal latino: [pro] avanti e [jacere] gettare, ci rimanda al significato di qualcosa che viene gettato davanti. A mio parere sottolinea l’importanza di una visione a lungo termine proiettata verso il futuro, che sprona a guardare avanti. I progetti, difatti, richiedono una precisa pianificazione e un attento studio delle implicazioni sia presenti che future.»

Ma come immaginano, ciascuno dei due, la fase iniziale della carriera di un giovane Project Manager?

Federico parla subito di «una sfida affascinante, ma al contempo impegnativa e complessa, ostacolata, ai primi passi, dalla gestione dell’ambiguità e dell’incertezza, soprattutto in contesti dove i progetti sono influenzati da molteplici variabili e cambiamenti improvvisi.» Ben ricordando quanto appreso, cita l’acronimo VUCA, che definisce il mondo d’oggi: Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity. Per stressare la mutabilità e l’incertezza, «un approccio più aggiornato del VUCA è stato presentato da Jamais Cascio: l'orizzonte BANI (Ndr: altro acronimo che sta per Brittle, Anxious, Nonlinear, Incomprehensible). Questo richiede una capacità di adattamento rapido e una notevole flessibilità mentale.

Un altro fattore importante è la necessità di possedere una vasta gamma di conoscenze e competenze. Secondo il Talent Triangle del PMI (Project Management Institute), un PM di successo deve essere esperto in tre dimensioni fondamentali: competenze tecniche di Project Management, leadership efficace e una visione strategica e di business. Integrare e bilanciare tali competenze può essere una sfida all’inizio della carriera, specialmente quando si affrontano situazioni complesse e diverse. Per concludere, queste competenze sono affinabili attraverso l’esperienza, quindi è importante per i giovani Project Manager impegnarsi nell’apprendimento continuo e nello sviluppo professionale. Be adaptive. Be agile in learning

Secondo il parere di Mattia, invece, le principali difficoltà che un giovane PM può incontrare all’inizio della carriera «includono innanzitutto la disciplina nell’uso delle parole: attribuire il significato, l’intenzione e il referente corretti. Ho idea che il pericolo maggiore per un giovane è quello di usare inconsciamente parole con il significato e l’intenzione giusti, ma sbagliando il referente, o viceversa. Di conseguenza, è importante anche saper formulare domande e fornire risposte corrette ed efficaci. Risulta fondamentale avere un proprio senso critico, ovvero saper riconoscere le differenze e ricavare informazioni utili, attribuendo il loro valore nell’ambito del progetto. Gli ambiti di business più favorevoli all’introduzione di questa disciplina, inoltre, sono a mio parere i settori tecnici e del software, dove si possono applicare metodi agili e interazioni rapide. Al contrario, gli ambiti in cui si riscontra maggiore difficoltà sono i settori della pubblicità e del marketing, che richiedono un alto grado di flessibilità e adattabilità.»

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Il lavoro in team è condizione imprescindibile per i progetti; vediamo come Mattia e Federico sono stati colpiti dalle dinamiche alla base del funzionamento degli individui in una squadra che deve raggiungere un obiettivo comune.

A Mattia piace fare un paragone molto ad hoc: «Ciò che mi colpisce è che c’è una somiglianza con la base del gioco di squadra come nel rugby: il capitano della squadra svolge un ruolo simile a quello del Project Manager. Supervisiona l’azione sul campo, prende decisioni tattiche e motiva i giocatori durante il gioco. Assicura che la strategia di gioco sia seguita e adattata in base alle circostanze, garantendo che tutti i componenti siano coinvolti e che l’obiettivo di segnare punti sia sempre presente. In sostanza, il capitano del rugby è il leader sul campo di gioco, che guida il suo team verso la vittoria attraverso coordinazione, comunicazione e leadership, appunto.»

Federico dà valore alla «comunicazione efficace e alla collaborazione tra i membri del team. In un contesto di progetto, è essenziale che ogni membro comprenda chiaramente il proprio ruolo e le proprie responsabilità, ma allo stesso tempo che sia in grado di lavorare in armonia con gli altri per raggiungere gli obiettivi comuni. Ho notato, però, che anche la diversità all’interno del team può essere una notevole risorsa da sfruttare. Ogni componente porta con sé un insieme unico di competenze, esperienze e prospettive, che possono arricchire il processo decisionale e portare a soluzioni più innovative. Infine, mi ha colpito l’importanza di avere un leader efficace all’interno del team. Un leader in grado di ispirare fiducia, guidare il team attraverso le sfide e mantenere alta la motivazione, infatti, può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un progetto. I leader più efficaci sono quelli che dimostrano empatia, comunicano chiaramente le aspettative e sono in grado di adattarsi alle mutevoli esigenze del team e del progetto.»

Sempre sul tema del Project Management, scopriamo quali pensano possano essere i fattori che in un’organizzazione ne rendono più difficile l’introduzione.

«Sono molteplici», afferma Federico, aggiungendo subito che «la resistenza al cambiamento rappresenta uno dei principali ostacoli: i membri del team o gli stakeholder possono esitare nel modificare i processi esistenti, considerandoli ancora validi; tale resistenza può derivare dalla mancanza di comprensione dei benefici della gestione dei progetti. Inoltre, la paura di adottare nuove metodologie e processi può ostacolare l’implementazione delle pratiche di Project Management. È quindi essenziale comunicare in modo chiaro i vantaggi delle pratiche di Project Management e fornire una formazione adeguata a superare queste sfide.»

E Mattia: «Ciò che rende più difficile l’introduzione di pratiche di Project Management in un’organizzazione è l’ignoranza o la paura nei confronti di metodi organizzativi e modi di lavorare innovativi. Ignoranza e paura che, di conseguenza, rendono le persone restie ad adottare un approccio proattivo.»

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Spostandoci poi sul Problem Solving, e partendo sempre dall’analisi etimologica, grazie alla quale scopriamo una somiglianza tra le parole ‘problema’ e ‘progetto’, proviamo a stimolare in Federico e Mattia le loro considerazioni a riguardo.

Mattia, grazie alle informazioni trovate ed elaborate, ci dice che «l’etimologia delle parole “problema” e “progetto” ci offre un’interessante connessione. Entrambe derivano dal greco antico e la loro origine comune può aiutarci a comprendere meglio il concetto di Problem Solving e come esso sia collegato al processo di progettazione. La parola “problema”, dal greco “próblēma” che significa “qualcosa posto davanti” o “impedimento”, indica una situazione o una questione che richiede una soluzione o una risposta. Immaginiamo di dover attraversare un fiume, ma c’è un grande masso nel mezzo. Il masso è il nostro “problema” da risolvere: come superarlo? Come raggiungere l’altra sponda?

La parola “progetto” ha una radice simile. Deriva dal greco “pro-ienai”, che significa “andare avanti” o “avanzare”. Un progetto è un piano o un insieme di azioni organizzate per raggiungere un obiettivo specifico.

Tornando all’esempio del fiume, il “progetto” potrebbe essere la costruzione di un ponte per superare il masso, cosa che richiede pianificazione, risorse e azioni coordinate.

Il Problem Solving quindi è il processo di risoluzione di un problema. Coinvolge l’analisi, la pianificazione e l’attuazione di soluzioni, ovvero una pro-azione. Quando affrontiamo un problema, dobbiamo progettare una strategia per superarlo. Questo è il collegamento tra le due parole: il Problem Solving rappresenta la costruzione del ponte tra il problema e la soluzione, utilizzando il processo di progettazione per guidarci.»

«I due termini, progetto e problema», per Federico, «riportano al concetto di cambiamento e opportunità in una prospettiva volta verso il futuro. Questo collegamento viene anche evidenziato da Juran nella definizione della parola ‘progetto’, descrivendola come un problema destinato a essere risolto (A project is a problem scheduled for solution). Tale concezione sottolinea una correlazione molto stretta, quasi intrinseca, tra le due parole: risolvere un problema, infatti, è spesso il punto di partenza da cui avviare un progetto, cioè trasformare una situazione di insoddisfazione in un miglioramento. La trasformazione da problema a progetto è quindi il mezzo che ci permette di raggiungere nuove opportunità ed evoluzioni.

Le due parole sono anche accomunate dall’iter necessario per risolvere un problema e realizzare un progetto, che è molto simile. Infatti, in entrambi i casi, sono richieste abilità di problem solving, pianificazione e adattabilità per procedere al meglio e trovare le soluzioni più adeguate al contesto in cui ci troviamo.»

Poiché l’iter di soluzione di un problema deve sempre partire dall’ammissione di avere un problema, e dalla sua descrizione condivisa, proviamo a capire insieme ai ragazzi quali sono per loro le fasi più importanti dell’impostazione iniziale della soluzione di un problema, da cui dipende il successo di ciascuno dei passi successivi, e che ruolo possono avere le parole e il linguaggio.

«I passaggi fondamentali per impostare la risoluzione di un problema», afferma Federico, «partono dal quantificare l’impatto del problema nella circostanza in cui ci troviamo (il costo finanziario, l’effetto sulla produttività, l’effetto sulla soddisfazione del cliente, ecc.). Successivamente, è fondamentale fornire una descrizione chiara e precisa del problema, includendo dove e quando si verifica, chi o cosa ne è influenzato, e qualsiasi altro dettaglio rilevante. Dopo aver definito il problema, il passo ulteriore è identificare la causa alla radice, che può richiedere un’analisi approfondita e l’uso di strumenti come il diagramma di Ishikawa o l’analisi delle 5 W (Who, What, When, Where, Why) per comprendere il motivo per cui il problema si è manifestato. In tutte le fasi di risoluzione di un problema, le parole e il linguaggio giocano un ruolo cruciale: un linguaggio chiaro e preciso può aiutare a definire il problema in modo efficace, comunicare le proprie idee agli altri, formulare ipotesi e presentare soluzioni. Infine, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e la condivisione di idee, che sono la chiave per la risoluzione dei problemi.»

Per Mattia, in base a quanto recepito dai suoi studi, «le fasi chiave per impostare con successo la soluzione di un problema sono l’identificazione del problema, l’analisi approfondita e la definizione degli obiettivi. Il primo step è come fare una mappa del tesoro: devi sapere esattamente qual è il problema, lo metti a fuoco e, se necessario, condividi con le persone con cui lavori. Nella fase successiva si scava più a fondo per capire la causa del problema, e in tal caso il sistema delle 5 W è molto usato e utile. La definizione degli obiettivi è come tracciare la rotta su una mappa. Dove vuoi arrivare? Che cosa vuoi ottenere risolvendo questo problema? Impostare obiettivi chiari aiuta a mantenere la direzione. Di conseguenza credo che il linguaggio e le parole sono come il filo conduttore che tiene insieme tutte queste fasi. Usare un linguaggio chiaro e condiviso aiuta a comunicare il problema in modo comprensibile a tutti i membri del team. Le parole possono anche essere strumenti potenti per ispirare e motivare le persone durante il processo di risoluzione del problema, aiutandole a restare focalizzate e impegnate nel raggiungimento degli obiettivi prefissati. Inoltre, un buon uso del linguaggio può facilitare la collaborazione e lo scambio di idee tra i membri del team, portando a soluzioni più innovative e efficaci.»

Foto di tookapic - Pixabay

E nell’iter di soluzione di un problema, che peso ha il team? Se la letteratura ci ha regalato geni investigativi come Poirot, Maigret, la Signora in giallo, Sherlock Holmes, tutti ‘solitari’ o che al massimo si avvalgono con distacco e superiorità di qualche gregario, con un ruolo sussidiario e spesso finalizzato a far brillare ancor più la loro intelligenza superiore, non deducete che sarebbe meglio lavorare da soli, allora?

La risposta di Federico è che «lavorare in team offre diversi vantaggi nell’affrontare problemi complessi. Innanzitutto la presenza di molteplici prospettive permette di individuare il problema e trovare soluzioni più adatte al caso. Inoltre, un team consente di valutare i rischi e le opportunità in modo più completo, fornendo un quadro generale maggiormente dettagliato. Rispetto ai grandi detective solitari della letteratura, anche se dotati di talento e intuito straordinari, un team offre una gamma più ampia di risorse e competenze, agevolando l’identificazione, l’analisi e la risoluzione dei problemi in modo più efficiente.»

L’opinione di Mattia è che «lavorare in team è importante perché ogni membro può portare le proprie esperienze e conoscenze utili a trovare una soluzione al problema. Anche i grandi investigatori non riuscirebbero a trovare la soluzione da soli, ma hanno necessariamente bisogno della collaborazione di altre persone per raccogliere informazioni utili per ‘risolvere il caso’.»

Fra le più importanti metodologie del Problem Solving – almeno tra quelle che si muovono in modo convergente verso la soluzione – c’è la metodologia 8D, così chiamata perché assorbe 8 discipline, appunto. Come nei progetti, solo uno sguardo ampio e multidisciplinare può essere davvero efficace per ottenere la soluzione efficace. Verifichiamo quali ambiti del sapere umano e organizzativo sono, per Mattia e per Federico, coinvolti nella soluzione del problema, dove metodi tecnici e di misura sono combinati con i fattori emotivi e psicologici.

Senza dubbio, per Mattia «la gestione del team, quindi includere persone con competenze differenti e un leader che possa guidare il processo, è il primo ambito del sapere umano e organizzativo coinvolto nella soluzione di un problema con la metodologia 8D. Poi c’è l’analisi dei dati tecnici e di misura per identificare e analizzare il problema; i processi organizzativi dove si cerca di ottimizzare dei processi aziendali per prevenire eventuali problemi; infine, eseguire standard di qualità e saper attuare audit interni sono fondamentali per il controllo e il miglioramento continuo.»

Affinché si arrivi alla soluzione di un problema, Federico ritiene che serva la combinazione di diversi ambiti del sapere umano e organizzativo. «Questi includono l’ingegno e la creatività per generare nuove idee, le competenze tecniche e professionali per analizzare e vagliare le possibili soluzioni, e il talento nel coordinare e gestire le risorse disponibili. Inoltre, si adottano metodi e modelli che guidano il processo decisionale e consentono una valutazione razionale delle opzioni disponibili. Tale approccio, definito multidisciplinare, include anche fattori emotivi e psicologici, in quanto la comprensione delle motivazioni, delle preferenze e delle dinamiche interpersonali influisce notevolmente sull’efficacia delle soluzioni proposte e sulla loro accettazione da parte dei soggetti interessati. L’obiettivo finale è quindi sviluppare una strategia completa che bilanci le esigenze pratiche con le valutazioni umane e organizzative, per affrontare il problema in modo completo e soddisfacente.»

 

Complimenti, ragazzi, e in bocca al lupo!





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