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Gruppo Tata: imprenditoria familiare, leadership etica e business transformation

Raccontiamo la storia e l’organizzazione di TATA, una realtà familiare che, nata nel lontano 1868, rappresenta oggi un conglomerato industriale il cui fatturato supera i 100 miliardi di dollari e che ha tra i propri slogan “Improving the quality of life of the communities we serve” e “Leadership with trust”.

Le origini e lo sviluppo del Gruppo Tata

Jamsetji Tata (foto dal sito)

Nel 1868, in piena epoca coloniale britannica, Jamsetji Nusserwanji Tata fonda a Bombay un’impresa che, inizialmente, opera nel settore tessile e che avrebbe lasciato un segno profondo nel panorama industriale dell’India.

Visionario e innovatore, il capostipite della dinastia industriale Tata era animato dalla profonda convinzione che la vera forza dell’industria risiedesse nella sua capacità di migliorare la vita delle persone.

Negli anni nascono così, tra le varie iniziative, Tata Steel, la prima acciaieria integrata dell’India, ma anche una centrale idroelettrica, un hotel di lusso – il Taj Mahal Palace Hotel a Mumbai – e l’Indian Institute of Science, università tecnico-scientifica creata da Jamsetji Tata investendo il proprio patrimonio personale con la ferma convinzione dell’importanza della ricerca scientifica e dell'istruzione superiore nei processi di trasformazione e di crescita sociale ed economica.

In tutti questi progetti si evidenziava un chiaro modello di sviluppo: un’industria guidata non solo dal profitto, ma da un fine più alto. In questo approccio ritroviamo la via che Adriano Olivetti ha cercato di applicare anche in Italia, purtroppo con diversa fortuna.

Tata Steel, ad esempio, fu pioniere nell’ambito del welfare aziendale: fin dal 1910 introdusse un orario di lavoro di 8 ore, assistenza medica, scuole, ferie pagate, fondo pensione, formazione professionale, bonus, congedo maternità, molto prima che fossero pratiche comuni nelle aziende.

Intorno all’acciaieria, Tata ha creato anche un esempio di urbanizzazione, la città di Jamshedpur, con strade ampie, alberi, aree verdi, strutture sportive e luoghi di culto religiosi per vari gruppi comunitari. Per realizzare il progetto sono stati coinvolti architetti come Frederick Charles Temple e Otto Koenigsberger, che applicarono il modello della “garden city”, pianificazione urbanistica in cui i quartieri e gli isolati sono circondati da "cinture verdi".

Fondata nel 1945 come TELCO (Tata Engineering and Locomotive Co. Ltd.), Tata Motors rappresenta il cuore industriale e simbolico delle trasformazioni del gruppo. Iniziò costruendo locomotive, ma già nel 1954, grazie a una joint venture con Daimler-Benz, entrò nel settore dei veicoli commerciali, procedendo per passi successivi alla diversificazione della produzione e alla creazione di una propria autonomia tecnologica.

Negli anni ’80, sotto la spinta di Ratan Tata, l’azienda iniziò a orientarsi al settore delle autovetture.

La Tata Indica, lanciata nel 1998, fu la prima vettura interamente progettata e prodotta in India destinata anche ai mercati internazionali.

Seguirono diverse acquisizioni strategiche: nel 2004 la sudcoreana Daewoo Commercial Vehicle, nel 2008 le prestigiose Jaguar e Land Rover.

A partire dal 2010, Tata Motors ha intrapreso un nuovo ciclo trasformativo, questa volta orientato a design, sicurezza e sostenibilità ambientale. Tata Motors oggi ha un proprio portafoglio di tecnologie ed è tra i leader in diversi settori, rappresentando un caso esemplare di trasformazione continua, in risposta alle sollecitazioni del mercato, ambientali e tecnologiche.

J.R.D. Tata (foto dal sito)

Altro esempio degno di essere citato è anche quello di Air India, fondata da J.R.D. Tata nel 1932 come Tata Airlines che, dopo la nazionalizzazione degli anni '50, nel 2022 è stata riacquisita da Tata Sons che ha intrapreso un importante piano di rilancio per portare il vettore a essere una compagnia aerea globale di livello mondiale con un cuore indiano.

La filantropia come struttura portante:

il ruolo delle Tata Trusts

Un aspetto peculiare del Gruppo Tata è che circa il 66% delle azioni di Tata Sons, la holding del gruppo, è controllato dalle Tata Trusts, istituzioni filantropiche che operano fin dai primi anni di vita delle industrie Tata. Questo assetto garantisce che la strategia industriale del gruppo sia guidata da un interesse collettivo, e non solo da quello privato.

Le Tata Trusts promuovono iniziative per l'istruzione, la salute, la cultura e i mezzi di sussistenza in India (foto dal sito)

Le Tata Trusts gestiscono un patrimonio superiore a 11 miliardi di dollari e donano oltre 400 milioni l’anno per progetti in sanità, educazione, ambiente, empowerment rurale e innovazione sociale. Ad esempio, durante la pandemia hanno stanziato oltre 180 milioni di dollari per strutture sanitarie, vaccini e dispositivi medici.

In campo educativo, promuovono iniziative come Internet Saathi (un programma di alfabetizzazione digitale che coinvolge oltre 1 milione di donne in aree rurali attraverso un modello "train-the-trainer", in cui le donne formate, le "Internet Saathis" insegnano ad altre donne della loro comunità a utilizzare Internet e i dispositivi digitali) e sostengono università e scuole d’eccellenza, come il già citato Indian Institute of Science. Nella sanità vengono finanziati ospedali oncologici e programmi di screening su larga scala. Nel settore ambientale, realizzano attraverso Tata Power campagne di sensibilizzazione energetica, riforestazione e risparmio idrico.

Infine, attraverso piattaforme come Tata Engage, oltre un milione di ore di volontariato vengono donate ogni anno da dipendenti, pensionati e familiari, creando una vera “cultura civica aziendale”.

Le Tata Trusts sono oggi guidate da Noel N. Tata, nominano circa un terzo del board di Tata Sons e godono di diritto di veto strategico. Ciò assicura un controllo etico sulla visione di lungo periodo, pur lasciando autonomia operativa al management.

Questo equilibrio tra famiglia, manager professionisti e filantropia rappresenta senza dubbio un unicum nel panorama industriale internazionale.

Conclusione: una lezione per il XXI secolo

La storia del Gruppo Tata è la dimostrazione concreta che l’impresa familiare può essere globale, etica e innovativa allo stesso tempo. In 150 anni, il gruppo ha attraversato imperi, crisi, liberalizzazioni e rivoluzioni tecnologiche senza perdere di vista la propria identità.

Grazie a una leadership stabile ma aperta al cambiamento, a un sistema di controllo fondato su Trusts filantropici, e a una costante capacità di anticipare e guidare le trasformazioni industriali, Tata è oggi un faro di capitalismo responsabile.

Nel tempo della transizione ecologica, delle disuguaglianze crescenti e dell’intelligenza artificiale, il Gruppo Tata ci ricorda che la trasformazione d’impresa non è solo questione di strategia, ma anche di scopo, comunità e coraggio etico.

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert

Nella foto di copertina: Tata Sons Private Limited, la principale holding del gruppo Tata


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Competenze e responsabilità: guidare i processi aziendali

Nel panorama odierno, caratterizzato da rapidi cambiamenti tecnologici, normative stringenti e crescente attenzione alla qualità e alla sostenibilità, il tema delle competenze e delle responsabilità in azienda assume un ruolo centrale. Non si tratta più soltanto di “saper fare”, ma di strutturare, monitorare e documentare in modo continuo le capacità delle persone e la corretta assegnazione dei ruoli.

In questo scenario, le norme ISO sui Sistemi di Gestione (come la ISO 9001 per la qualità, la ISO 14001 per l’ambiente e la ISO 45001 per la sicurezza) forniscono una guida essenziale e obbligatoria per le organizzazioni che vogliono operare secondo standard riconosciuti e affidabili.


La competenza come requisito sistemico

La ISO 9001:2015, al punto 7.2, introduce un concetto chiave: la competenza, vista come una combinazione coerente di istruzione, esperienza e apprendimento continuo.

Per adempiere al requisito normativo (obbligatorio), le organizzazioni che intendono lavorare in Qualità secondo la norma citata, devono:

  • determinare quali competenze sono necessarie per ogni attività che impatta sul sistema di gestione;

  • verificare che le persone siano effettivamente competenti;

  • colmare eventuali gap attraverso interventi formativi e monitorarne l’efficacia;

  • documentare in modo strutturato queste informazioni.

Tale approccio sistemico rende la competenza un asset misurabile e tracciabile, trasformando la gestione delle risorse umane da funzione operativa a punto di forza per la competitività e lo sviluppo aziendale.

Skill Matrix:

mappare e valorizzare le competenze

Per rendere operativi i concetti esposti, un valido supporto è offerto dallo strumento di Lean Management rappresentato dalla Skill Matrix, una matrice che incrocia le figure aziendali con le competenze richieste per le diverse attività. Ogni cella della matrice può riportare un livello di padronanza (es. 1 = in formazione, 2 = base, 3 = esperto, 4 = molto esperto), fornendo una fotografia istantanea delle capacità dell’organizzazione.

Esempio di Skill Matrix

Un’impresa manifatturiera, ad esempio, può costruire una Skill Matrix per il reparto produzione, indicando le competenze tecniche richieste per ogni macchina o impianto (es. macchine CNC, impianto di verniciatura, sistemi di monitoraggio e controllo) e il livello raggiunto da ogni operatore.

Analogamente per l’Ufficio Tecnico si possono verificare le competenze raggiunte nell’utilizzo dei software di calcolo o di disegno rispetto a quelle richieste.

 Questa operazione consente di:

  • identificare carenze di competenze critiche;

  • pianificare formazione mirata e percorsi di affiancamento;

  • assicurare la copertura operativa anche in situazioni straordinarie (ferie, malattie);

  • dimostrare in sede di audit che ogni attività è affidata a persone competenti.

Responsabilità:

chiarezza nei ruoli e continuità operativa

Parallelamente al tema della competenza, emerge quello della responsabilità. La Matrice delle Responsabilità (RAM – Responsibibility Assignment Matrix), da non confondere con la Skill Matrix sopra citata, consente di attribuire formalmente, per ogni attività chiave, un responsabile primario e uno o più sostituti operativi. Questa logica è fondamentale per garantire la continuità dei processi e ridurre i rischi organizzativi.

Esempio di RAM

Ad esempio, nel processo di gestione dei reclami cliente, si può assegnare la responsabilità primaria al Responsabile Qualità, con un backup designato nel team tecnico che possa sostituire il responsabile primario in caso di assenza. In questo caso, è importante sottolineare che tutti i soggetti coinvolti devono possedere la medesima competenza per assicurare che l'attività venga svolta in modo equivalente.

In assenza di una RAM formalizzata e gestita, le aziende possono rischiare inefficienze, mancanze documentali, o persino violazioni normative nei casi in cui attività obbligatorie non vengano svolte per assenza dei titolari.

Digitalizzazione delle matrici:

efficienza e tracciabilità

Con la trasformazione digitale in atto, sempre più organizzazioni stanno informatizzando la gestione delle competenze e delle responsabilità, integrandole in sistemi HR, ERP o moduli dedicati alla formazione. Questi strumenti permettono, ad esempio, di:

  • associare digitalmente a ogni posizione aziendale mansioni, responsabilità e competenze richieste;

  • mantenere evidenze aggiornate e sempre disponibili per audit e ispezioni;

  • tracciare scadenze formative, piani di aggiornamento e verifiche periodiche.

Alcuni software avanzati consentono di generare report automatici, allarmi sulle scadenze, simulazioni per coperture operative e analisi predittive sui fabbisogni formativi. Questo rende possibile gestire la crescita del personale in modo dinamico, coerente con gli obiettivi strategici dell’impresa.

Coerenza strategica

e coinvolgimento organizzativo

Non si può parlare di competenze e responsabilità senza considerare il fattore umano e culturale. Per funzionare davvero, queste logiche devono essere parte integrante della cultura aziendale, essere comprese e condivise da tutto il personale, non solo formalizzate in documenti. In tal senso, la consapevolezza (punto 7.3 della ISO 9001) diventa un elemento abilitante: ogni collaboratore deve sapere cosa ci si aspetta da lui, quali sono gli obiettivi aziendali e come il suo contributo è determinante per il successo dell’organizzazione.

Inoltre, l’analisi periodica delle competenze e delle responsabilità rappresenta uno strumento potente anche per la gestione del cambiamento, delle nuove tecnologie e della sostenibilità. Ad esempio:

  • nell’introduzione di un nuovo impianto automatizzato, la mappatura delle competenze permette di identificare i gap formativi e predisporre un piano di aggiornamento mirato;

  • nella gestione ESG, permette di collegare compiti e responsabilità a obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, favorendo un’accountability diffusa.

Conclusione

In sintesi, la gestione delle competenze e delle responsabilità è molto più di un adempimento normativo: è una componente chiave della Governance aziendale. Attraverso strumenti come la Skill Matrix e i sistemi digitali integrati, le organizzazioni possono garantire:

  • efficienza operativa e riduzione dei rischi;

  • miglioramento continuo della qualità e della sicurezza;

  • trasparenza nei ruoli e nella crescita professionale;

  • capacità di adattamento al cambiamento e all’innovazione.

In un mondo dove le performance aziendali continueranno a dipendere dalle persone (messe al centro anche nel modello “Industria 5.0”) e dalle specifiche competenze (che potranno riguardare settori innovativi come l’applicazione dell’A.I.), una gestione solida delle competenze e delle responsabilità rappresenta una delle migliori assicurazioni sul futuro delle imprese.

Fonte: Commissione UE

Foto di copertina: Gerd Altmann - Pixabay

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Quando la Business Transformation diventa disruptive

In un contesto economico e tecnologico in continua accelerazione, molte aziende si trovano a intraprendere percorsi di Business Transformation: ridefiniscono processi, digitalizzano attività, innovano modelli di servizio o produzione.

Non tutte le trasformazioni, tuttavia, sono della stessa portata. Alcune si limitano a migliorare ciò che esiste, altre invece cambiano radicalmente il modo in cui l’impresa opera, compete, crea valore e si relaziona con il mercato, portando una vera e propria “disruption”.

Le trasformazioni che rompono gli schemi

Come sottolinea l’analista americano Daryl Plummer di Gartner, il termine “disruption” è spesso frainteso o utilizzato impropriamente per descrivere qualsiasi innovazione. La vera disruption (traducibile con “rottura”, “svolta”) è qualcosa di più radicale, capace di alterare profondamente l’equilibrio di un’organizzazione, superando modelli consolidati e sostituendoli con nuove logiche di creazione del valore.

La disruption non è un semplice passo avanti ma un vero e proprio salto, che avviene quando l’azienda modifica integralmente processi, tecnologie e cultura, superando e rendendo obsoleti approcci e pratiche precedenti.

La disruption può iniziare come semplice trasformazione digitale o revisione strategica, ma finisce con lo stravolgere l’intero modello di business.

Ad esempio, una piccola impresa manifatturiera che adotta l’IoT per ottimizzare la produzione potrebbe, successivamente, evolvere vendendo servizi basati sui dati raccolti dalle macchine, trasformandosi in un fornitore di soluzioni intelligenti: non sta solo innovando, sta ridefinendo il proprio ruolo nella catena del valore. È questo il cuore della disruption.

Come riconoscere

una trasformazione disruptive?

Ci sono segnali frequenti che indicano quando una trasformazione sta modificando la natura dell’azienda:

  • tecnologie abilitanti non solo migliorative, ma che capaci di aprire nuove possibilità (come intelligenza artificiale, automazione avanzata, blockchain);

  • cambiamento delle competenze: alcuni ruoli si trasformano, altri spariscono, altri emergono;

  • evoluzione dei modelli di business: ad esempio passando da un modello “product-based” a uno “as-a-service”;

  • resistenze culturali interne, spesso sintomo di un cambiamento che va più a fondo del previsto;

  • ridefinizione dei confini organizzativi: supply chain più corta, canali digitali, fornitori integrati.

Il punto di non ritorno

Ciò che caratterizza una trasformazione disruptive è l’irreversibilità: una volta avviato il processo, non si può più tornare indietro e le vecchie metriche, i processi tradizionali, i modelli di leadership non sono più utilizzabili.

In questa fase l’organizzazione deve compiere scelte precise:

  • riformulare la propria proposta di valore;

  • abbandonare logiche verticali e gerarchiche in favore di modelli più agili e adattivi;

  • favorire una cultura che esplora, apprende, sperimenta.

Per questi passaggi è necessaria una leadership che non si limita a gestire il cambiamento ma che sappia guidarlo con visione e coraggio.

Disruption guidata o subita?

Alcune aziende, spiazzate da nuovi concorrenti o da cambiamenti tecnologici imprevisti, subiscono la disruption, altre, invece, riescono a guidarla dall’interno, anticipano le tendenze, sperimentano, si mettono in discussione prima che lo faccia il mercato.

È il caso della Apple, che è stata capace di proporre continuamente prodotti innovativi: non solo pc o cellulari, ma smartphone, tablet, lettori musicali, smartwatch e accessori. Anche realtà meno note hanno saputo reinventarsi, cogliendo le opportunità offerte da intelligenza artificiale, servitizzazione (modello di business che combina la fornitura di prodotti e servizi), piattaforme digitali.

Disruption come opportunità

Quando una business transformation diventa disruptive, l’azienda può resistere – e rischiare l’obsolescenza – o evolvere, aprendo nuove prospettive. Ma servono audacia, visione, elasticità mentale e capacità di interiorizzare nuove logiche di lavoro.

In un mondo in cui il cambiamento è la regola, le organizzazioni che assecondano la disruption non solo sopravvivono, ma diventano leader della nuova economia. Non si limitano ad adattarsi: definiscono le nuove regole del gioco.

Foto di copertina: Clker-Free-Vector-Images - Pixabay

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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La "middle technology trap", ovvero la trappola dell’innovazione in stallo

Secondo una recente analisi della Corte dei Conti, l’Italia si trova in una delicata fase economica in cui è essenziale ripensare il modello di sviluppo per evitare la cosiddetta “middle technology trap” e competere sia sui costi sia sull’innovazione. Come uscire da questa situazione?

Cos’è la middle technology trap

La "middle technology trap" (trappola della tecnologia intermedia) è un concetto che descrive la situazione in cui un Paese o un'azienda sono bloccati in una posizione tecnologica intermedia per cui non riesce più a competere con i concorrenti a basso costo, ma neppure a raggiungere i livelli di innovazione, produttività o sofisticazione tecnologica più avanzati.

Gli aspetti che caratterizzano la “middle technology trap” sono:

  • competitività limitata: dovuta agli alti costi di produzione, non sostenuti dall’innovazione tecnologica;

  • difficoltà a salire nella “catena del valore”, cioè a passare da settori a bassa intensità tecnologica verso quelli ad alto valore aggiunto;

  • dipendenza da tecnologie di importazione per cui invece di sviluppare innovazione internamente, si fa affidamento su tecnologie sviluppate all'estero, limitando la crescita della capacità industriale nazionale;

  • investimenti insufficienti in capitale umano e in ricerca e sviluppo.

Un’economia bloccata nella “middle technology trap” è in una posizione intermedia in termini di sviluppo tecnologico e produttivo:

  • non è competitiva in termini di costi (come i Paesi emergenti che hanno bassi costi di manodopera);

  • non è in grado di competere in termini di innovazione avanzata con i Paesi ad alta tecnologia, ad esempio USA, Germania, Corea del Sud).

Questa situazione ha diversi effetti negativi: bassi margini di profitto, stagnazione, dipendenza tecnologica, difficoltà ad attrarre investimenti.

Alcuni esempi

Esistono diversi esempi di Paesi che si trovano in una situazione di “middle technology trap”.

La Thailandia, pur avendo sviluppato una forte crescita economica in settori come l’automotive o la componentistica elettronica, dipende da tecnologie importate e imprese straniere (come Toyota o Samsung) per l’innovazione. Inoltre, resta legata a ruoli di subfornitura con bassa capacità di R&S interna.

La Malesia, pur avendo attratto investimenti stranieri in elettronica e semiconduttori, non ha costruito un ecosistema industriale in grado di perseguire l’innovazione in modo autonomo, con il rischio di non riuscire a evolvere verso un livello più elevato di ricerca e progettazione.

Il Messico è caratterizzato da insediamenti produttivi di grandi aziende straniere, ma il know how e la capacità di innovazione rimangono all’estero e non incoraggiano la capacità locale di innovazione e sviluppo tecnologico.

La situazione italiana

Secondo l’analisi della Corte dei Conti, la situazione dell’industria italiana, pur presentando criticità che disegnano un quadro a luci e ombre, ha ancora possibilità di evitare la “middle technology trap”.

La via per scongiurarla è investire in modo massiccio, strutturato e duraturo in ricerca, sviluppo e innovazione, anche utilizzando le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che ha dedicato a ricerca, sviluppo e innovazione circa il 10% delle risorse totali, pari a 19 miliardi di euro.

Le aree da presidiare maggiormente sono:

  • potenziare il capitale umano, ad esempio attraverso investimenti in borse di dottorato e sostegno ai giovani ricercatori, anche in collaborazione con il mondo delle imprese;

  • favorire la collaborazione tra mondo accademico e imprese, con l’obiettivo di creare o potenziare gli ecosistemi dell’innovazione diffusi sul territorio;

  • sviluppare settori prioritari emergenti, come l’intelligenza artificiale, la filiera dell’idrogeno e l’economia spaziale;

  • stimolare l’innovazione nelle imprese in termini di spesa e di orientamento alle tecnologie a maggiore intensità tecnologica (deep tech).

Foto di Pavel Danilyuk - PEXELS

i possibili rimedi

È fondamentale prevedere investimenti massicci e mirati sia nella ricerca di base sia nello sviluppo di tecnologie applicate, con particolare attenzione ai settori ad alta intensità di conoscenza e a forte potenziale di crescita. Tali investimenti devono essere orientati a rafforzare l’autonomia tecnologica del Paese, riducendo la dipendenza da forniture estere in ambiti critici come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori, le biotecnologie e l’energia.

Foto di RDNE Stock project - PEXELS

Parimenti è opportuno incentivare la proprietà intellettuale attraverso la promozione della registrazione di brevetti, marchi e know-how, incentivando le aziende che innovano.

L’esperienza di Paesi come Corea del Sud dimostra che è possibile uscire dalla trappola attraverso pianificazioni integrate, dove il settore pubblico e quello privato collaborano in modo sistemico e coordinato. In questi casi, i governi hanno svolto un ruolo attivo non solo nel finanziare la ricerca, ma anche nel creare ecosistemi favorevoli all’innovazione, supportando le startup, incentivando le partnership tra imprese e università e facilitando l’accesso ai mercati internazionali.

Un elemento imprescindibile per il successo è la promozione di una cultura nazionale dell’innovazione, che valorizzi la creatività, la sperimentazione e la propensione al rischio. Serve costruire ambienti dove il fallimento non sia stigmatizzato, ma considerato parte integrante del processo di apprendimento e crescita tecnologica. Solo attraverso un cambio di mentalità diffuso, sostenuto da investimenti in capitale umano, formazione avanzata e attrazione di talenti, un Paese può realmente ambire a scalare la frontiera tecnologica globale.

In sintesi, uscire dalla “middle technology trap” richiede molto più che singoli interventi: è necessario introdurre una strategia sistemica, sostenuta nel tempo, che combini visione politica, investimenti, collaborazione pubblico-privato e sviluppo culturale orientato all’innovazione.

Credit foto di copertina: Pixabay

 

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Calcolo quantistico e business transformation

Il calcolo quantistico esce, lentamente ma con continuità, dalla dimensione dei laboratori di ricerca e promette di trasformare diversi settori industriali (farmaceutica, finanza, energia, telecomunicazioni per citarne alcuni) con un notevole effetto economico. Uno strumento di business transformation che apre scenari di grande impatto e interesse.

Prossimamente, quando parleremo con gli addetti ai lavori del settore informatico dovremmo abituarci a utilizzare nuovi termini – qubit, bit quantistico: prove di una prepotente rivoluzione nel campo della potenza dei sistemi di calcolo.

La rivoluzione del calcolo quantistico

Gerd Altmann - Pixabay

Quando si parla di “Computer Quantistici” ci si riferisce a sistemi di calcolo basati sui principi della meccanica quantistica. A differenza di quelli classici, che utilizzano il codice binario e i bit (che possono assumere valore 0 o 1), i computer quantistici impiegano i qubit (quantum bit), che possono trovarsi in una sovrapposizione degli stati 0-1 o una combinazione di entrambi contemporaneamente.

In un computer quantistico possono aversi diverse modalità di funzionamento.

Sovrapposizione: un qubit può rappresentare sia 0 che 1 nello stesso momento, aumentando la potenza di calcolo potenziale.

Entanglement (intreccio): due o più qubit possono essere correlati tra loro in modo che lo stato di uno influenzi istantaneamente quello dell'altro; il fenomeno permette calcoli paralleli su larga scala.

Interferenza quantistica: combinazione che serve a rafforzare le probabilità dei risultati corretti e a cancellare quelli errati durante i calcoli.

Questa tecnologia consente lo svolgimento di molteplici calcoli in parallelo, con una velocità di elaborazione decisamente più elevata rispetto a quella dei computer finora utilizzati. In questo modo sono possibili analisi, simulazioni e previsioni complesse e, in alcuni casi, non realizzabili fino a oggi.

Questa situazione rappresenta ciò che qualcuno chiama la “seconda rivoluzione quantistica” che consente l’applicazione pratica della “prima rivoluzione”, basata sulle teorie di Einstein.

Gerd Altmann - Pixabay

I Computer Quantistici

come strumento di business transformation

La sperimentazione dei computer quantistici nasce agli inizi degli anni 2000. Oggi, dopo un quarto di secolo, questi sistemi stanno, lentamente ma inesorabilmente, uscendo dai laboratori ed entrano nel mondo dell’industria e dei servizi.

Nel farmaceutico, i computer quantistici possono garantire supporto alla ricerca e allo sviluppo di nuovi farmaci tramite simulazioni molecolari e chimiche, progettazione di molecole biologiche avanzate, simulazioni di reazioni complesse. L’obiettivo è di velocizzare i processi di analisi e sviluppo.

In ambito finanziario, le simulazioni quantistiche portano a migliorare la modellazione dei mercati e delle loro fluttuazioni, le analisi di rischio e l’ottimizzazione dei portafogli di investimento.

Nel settore dell’energia, l’impiego dei computer quantistici può migliorare notevolmente l’efficienza nella gestione delle reti e l’integrazione delle fonti rinnovabili, ottimizzando la gestione della variabilità dei consumi e della produzione.

Nelle telecomunicazioni, importante è il contributo della crittografia quantistica alla sicurezza dei dati. Inoltre, è possibile migliorare la gestione del traffico dati evitando fenomeni di congestione delle reti e di conseguenza migliorando velocità e qualità dei servizi.

Potenziale e sfide del calcolo quantistico

Gerd Altmann - Pixabay

Il valore aggiunto creato dall’impiego del calcolo quantistico è ancora oggetto di studio. Diverse stime riportano però percentuali e sfide decisamente interessanti.

Nel settore farmaceutico e chimico, con l’impiego di questa tecnologia, si prevede una riduzione dei tempi di sviluppo che va dal 12% al 30%, con un risparmio di miliardi di dollari.

Nel campo energetico, la riduzione dei costi di produzione utilizzando le fonti rinnovabili potrebbe oscillare tra il 20 e il 30%, mentre in ambito finanziario viene ipotizzato un incremento della redditività degli investimenti tra il 10 e il 20%; stessa percentuale per la riduzione dei danni economici derivanti da violazioni dei sistemi informatici.

In definitiva ci sarà un effetto tangibile sull’andamento dell’economia a livello mondiale, grazie a innovazione e incremento dell’efficienza produttiva.

Certamente il potenziale di questa nuova tecnologia è notevole, ma altrettanto importanti sono le sfide da affrontare, non solamente dal punto di vista tecnologico.

Le organizzazioni dovranno fare proprio il modo di gestire questo tipo di apparati, evitando le perturbazioni (ad esempio le variazioni di temperatura e le vibrazioni) che possono condizionarne il funzionamento. Anche gli hardware e i software impiegati da questo tipo di tecnologia presentano delle specificità rispetto a quelli che conosciamo oggi, così come i linguaggi di programmazione.

Si renderà necessaria la creazione di specifiche professionalità o l’evoluzione delle figure professionali che attualmente operano nell’ambito dell’informatica, riportando nuovamente alla ribalta il tema della gestione e della diffusione della conoscenza in ambito non solo accademico, ma anche aziendale.

Lo scenario è complesso e articolato, ma il viaggio che si prospetta è davvero rivoluzionario, come quelli intrapresi nel passato dai navigatori che hanno permesso la conoscenza e l’esplorazione di nuovi continenti.

 

Credit foto di copertina: Pete Linforth - Pixabay

 

  Andrea Calisti

Business Transformation Expert


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Processi, Problem Solving e Risk Management

Da marzo a giugno 2025 BluPeak è stata ospite di tre Live on Web organizzate da Blulink srl, con cui BluPeak condivide spesso momenti di crescita culturale. Abbiamo navigato nelle acque della trasformazione aziendale fornendo metodologie e strumenti pratici per affrontare le sfide organizzative e migliorare la gestione aziendale.

Riuniamo in questo articolo la sintesi dei 3 incontri.

A battezzare il breve ciclo è stato Stefano Setti, CEO&Founder di BluPeak Consulting, affrontando il tema della governance dei Processi per il miglioramento organizzativo: suo obiettivo è stato fornire una visione strategica del BPM, il suo valore per ottenere successo aziendale e maggiore produttività e il suo legame con la trasformazione digitale, laddove BPM sta per Business Process Management o Modelling o Measurement, ovvero l’insieme di metodologie, strumenti e tecnologie (software) per modellare, monitorare e migliorare i processi aziendali.

Inserendo nella nostra realtà il termine processo come una serie di operazioni atte a conseguire un dato fine, procedimento, metodo, stabiliamo che gli elementi del processo sono l’insieme di attività, correlate o interagenti, che riceve degli input e li converte in output con la creazione di un valore aggiunto.

Stefano ha portato la nostra attenzione sull’idea di ripetitività – di routine intesa in senso virtuoso –  e in più ha precisato che mai, nella gestione dei processi aziendali, dobbiamo trascurare la presenza delle persone e delle relazioni, ovvero l’aspetto umano – e al riguardo ci ha regalato una bellissima suggestione artistica con il dipinto del 1559 “I Proverbi fiamminghi” di Pieter Bruegel –, e così è arrivato al concetto di riproducibilità dei risultati, che permette ai Business Process di produrre valore aggiunto.

Con un efficace excursus, Stefano ha parlato di alcuni autori ed eventi che segnano passaggi significativi sui Business Process a partire dagli anni ’90, anni di fioritura e razionalizzazione di tale concetto, e con la vera svolta del 2000, quando la norma ISO 9001:2000 per la prima volta introduce un approccio basato sui processi all’interno dei sistemi di gestione della qualità (SGQ), rendendo il Business Process Management (BPM) un elemento chiave per la certificazione.

Il ciclo di vita del BPM prevede il Design (disegnare i processi esistenti e futuri), l’Esecuzione (implementare il processo, spesso con software BPM), il Monitoraggio (raccogliere dati sulle prestazioni), l’Ottimizzazione (migliorare i flussi per maggiore efficienza) e l’Automazione (digitalizzazione e RPA - Robotic Process Automation), mentre i KPI per misurare il successo del BPM sono l’efficienza operativa (per esempio il tempo medio di completamento di un processo), i costi ridotti (es.: diminuzione dei costi per errore umano), la Customer Experience (es.: tempi di risposta ai clienti), la Compliance & Governance (es.: riduzione dei rischi operativi).

La cultura del Business Process, ha precisato Stefano, è ancora estremamente viva e valida, anzi non ancora del tutto esplorata e sfruttata, ma attualmente il BPM può trarre ulteriore giovamento da una serie di nuove tecnologie e amplificazioni.  

Nella seconda Live on Web è intervenuto Andrea Calisti, Business Transformation Expert del Team BluPeak, parlando di strategie e strumenti di Problem Solving per evitare soluzioni improvvisate.

Ogni giorno ci troviamo ad affrontare problemi, ma cosa significa davvero risolverli? E come farlo senza improvvisare, appunto, costruendo soluzioni efficaci e durature?

Un problema nasce quando qualcosa interrompe il normale funzionamento di un processo: un disallineamento tra la situazione attuale e quella desiderata, un’incognita. Per superare l’ostacolo serve metodo ed entra in gioco il Problem Solving, ovvero la capacità di analizzare criticità e generare soluzioni sostenibili e replicabili.

Il percorso ideale? Seguire uno schema strutturato, come quello delle 8 discipline (8D):

  1. Costruire un team interdisciplinare

  2. Descrivere chiaramente il problema

  3. Applicare azioni di contenimento

  4. Analizzare le cause radice

  5. Definire e attuare azioni correttive

  6. Verificarne l’efficacia

  7. Standardizzare le soluzioni

  8. Estendere il know-how e valorizzare le lesson learned

Attenzione però a due insidie comuni: la fretta nel trovare una risposta, che porta spesso a soluzioni fragili, e la resistenza al cambiamento, che può bloccare la comprensione profonda del problema.

A supporto, strumenti come il Diagramma di Ishikawa o la tecnica dei 5 perché, utili per mappare e leggere in profondità le cause.

Anche l’Intelligenza Artificiale può contribuire: “mantenendone sempre il governo”, ci ha consigliato Andrea, può raccogliere dati, velocizzare l’analisi e facilitare la visualizzazione delle informazioni.

Infine, ogni problema risolto lascia una traccia preziosa: le lesson learned sono il patrimonio aziendale che ci aiuta a non ripetere gli stessi errori e a costruire una vera cultura del miglioramento continuo (Kaizen).
Perché – come ha ricordato Andrea – una soluzione efficace non basta: «Bisogna tutelarsi dalla sindrome del pesce rosso, cioè il non avere sufficiente memoria di ciò che si è fatto in passato.» 

Durante il suo intervento, l’ultimo del ciclo, Silvia Martellos, Business Transformation Expert di BluPeak Consulting, ha evidenziato l'importanza del risk-based thinking nel quadro attuale, sempre più segnato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità (VUCA).

Tale approccio non si limita alla gestione dei rischi per adempiere a obblighi normativi, ma rappresenta un cambio di mentalità: riconoscere nel rischio anche un’opportunità di miglioramento e innovazione. È quindi fondamentale integrarlo nella strategia complessiva dell’organizzazione, attraverso processi sistematici e strutturati.

Silvia ha inoltre sottolineato la rilevanza di una governance chiara, di un linguaggio condiviso e della comprensione della propensione e tolleranza al rischio dell'organizzazione e degli stakeholder chiave, affinché la gestione sia efficace e allineata al contesto.

Ha poi approfondito il tema dell’identificazione e analisi dei rischi, evidenziando l’utilità di strumenti operativi per valutare impatti e probabilità, e l’importanza di definire indicatori di rischio, piani di risposta.

Un punto centrale, ci ha ricordato Silvia, è l'attuazione proattiva delle strategie di gestione del rischio, con un aggiornamento continuo in base all’evoluzione del contesto e grazie al coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholder.

Nell’ambito della trasformazione aziendale, il pensiero basato sul rischio si conferma ancor più centrale: le business transformation, difatti, sono iniziative strategiche e, per questo, maggiormente esposte al rischio. Per favorire il successo delle iniziative di business transformation, dobbiamo gestire in modo proattivo minacce e opportunità con rigore e costanza.

In conclusione, Silvia ha ribadito come un approccio maturo e consapevole al rischio possa diventare un vantaggio competitivo e contribuire in modo determinante al successo dell’organizzazione.

Immagine di copertina di Ylanite Koppens - Pexels

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