business transformation

Agile Mindset&Design Thinking - Seconda parte

Agile Mindset&Design Thinking

per una Business Transformation di successo

seconda parte

Proseguendo l’articolo precedente, in cui ho parlato dell’Agile Mindset, ora tratto del Design Thinking.

Il Design Thinking è un modo di pensare, sviluppato per favorire l’innovazione e la creatività, con un approccio orientato all’utente e che parte da una comprensione approfondita dei suoi bisogni, per concepire soluzioni completamente nuove ed efficaci.  

Fin dall’inizio, alla base del Design Thinking c’è l’idea di un cambiamento disruptive: uno schema concettuale nuovo è necessario quando dobbiamo ideare prodotti o servizi innovativi, così come una Business Transformation che debba affrontare un passaggio radicale (quantico) o risolvere problemi particolarmente difficili di qualsiasi natura (i cosiddetti problemi aggrovigliati), laddove un approccio cartesiano convergente non è sufficiente. Nell’affrontare la Business Transformation, il Design Thinking può essere convenientemente integrato con le lezioni provenienti dalla Business Process Reengineering, sviluppate negli anni ’90 (Hammer, Davenport), il cui approccio prevede lo smantellamento e il ripensamento radicale di uno o più processi chiave dell’azienda.

Il Design Thinking si è sviluppato negli anni ‘80 e ‘90 alla Stanford University, adottato e perfezionato dalla maggior parte dei grandi player della produzione manifatturiera e del mondo digitale.

Un principio fondamentale del Design Thinking è che ogni innovazione deve operare nell’intersezione tra: 

  • Desiderabilità del cliente

  • Fattibilità tecnica

  • Sostenibilità aziendale

A mindset, a process, a toolkit?

Una delle principali aree di applicazione del Design Thinking, nei primi decenni della sua vita, è stata la progettazione dell’esperienza dell’utente (UX), dove è fondamentale sviluppare e affinare le competenze per comprendere e affrontare i rapidi cambiamenti negli ambienti e nei comportamenti degli utenti.

Il mondo è diventato sempre più interconnesso e complesso da quando Herbert A. Simon (Nobel per l’Economia e Premio Turing) ha menzionato per la prima volta il Design Thinking nel suo testo del 1969, “Sciences of the artificial”, e ha contribuito ad ampliare i suoi principi. Analisti di svariati settori, come architettura e ingegneria, hanno sviluppato tale modalità altamente creativa per affrontare le esigenze umane nell’era moderna e sempre più organizzazioni, in molteplici ambiti, troveranno nel Design Thinking uno strumento prezioso per sviluppare soluzioni innovative per prodotti e servizi. I team di progettazione utilizzano il Design Thinking per affrontare problemi poco definiti e sconosciuti (l’aggettivo inglese che è stato adottato, wicked, ha il senso di aggrovigliato, diabolico, malvagio, a sottolineare la difficoltà ad affrontarlo con metodi noti e schemi tradizionali; possiamo parlare di problemi complessi), perché in questo modo possono riformularli in modo umano-centrico e concentrarsi su ciò che è più critico per gli utenti.

Tra tutti i processi di progettazione, il Design Thinking è quasi certamente il migliore per pensare fuori dagli schemi. Con esso, i team possono svolgere meglio la ricerca UX, la prototipazione e i test di fruibilità per trovare nuovi modi di soddisfare le esigenze degli utenti.

La seguente distinzione delle fasi caratteristiche del Design Thinking è quella più universalmente adottata:

Fase 1: Empatizzare

Explore Users’ Needs - In questa fase è necessario approcciare empaticamente al problema da risolvere, in genere attraverso l’osservazione degli utenti. L’empatia è fondamentale per un processo di progettazione incentrato sull’uomo, perché consente di mettere da parte le proprie supposizioni sul mondo e di acquisire una visione reale degli utenti e delle loro esigenze. Quando è possibile, il designer deve mettersi nei panni dell’utente e vivere direttamente la sua esperienza. È utile integrare in questa fase qualsiasi conoscenza e capacità di gestire i bias cognitivi e le trappole mentali.

Fase 2: Definire

Assess your stakeholders’ pains & gains - La seconda fase consiste nell’accumulare le informazioni raccolte durante la fase precedente. Le osservazioni vengono analizzate e sintetizzate per definire i problemi principali identificati dal team. Queste definizioni sono talvolta chiamate problem statements. Un potente strumento per questo scopo è chiamato personas (una sorta di archetipo, realistico, del soggetto, con foto, citazioni, desideri, ostacoli...) per aiutare a mantenere gli sforzi centrati sull’uomo prima di procedere alle fasi successive.

Fase 3: Ideare

Create ideas adopting lateral thinking - Ora il team è pronto a generare idee. Il bagaglio di conoscenze acquisito nelle prime due fasi permette al team di iniziare a pensare fuori dagli schemi, a cercare modi alternativi di vedere il problema e a individuare soluzioni innovative per sostanziare l’affermazione proposta. Il brainstorming è particolarmente utile in questo caso, così come qualsiasi altro strumento di pensiero laterale, soprattutto i Sei Cappelli di De Bono (ci tornerò più avanti).

Fase 4: Prototipo

If fail, fail soon - Questa è una fase altamente empirica e sperimentale. L’obiettivo è identificare la migliore soluzione possibile per ogni problema riscontrato. Il team dovrebbe produrre alcune versioni economiche e ridotte del prodotto (o di specifiche funzionalità presenti nel prodotto) per approfondire le idee emerse. Ciò potrebbe comportare anche una semplice prototipazione su carta. Uno dei mantra del Design Thinking, infatti, è show, don’t tell (mostra, non raccontare): si tratta di un chiaro collegamento con l’Agile Mindset, che ricerca i primi feedback degli utenti attraverso la consegna incrementale delle parti di prodotto a cui si è lavorato. Si tratta di un passaggio critico, perché immaginare un fallimento, o peggio ancora cercare feedback negativi da parte degli utenti, è anticulturale, per nulla istintivo, per cui il team leader deve gestire con attenzione la consapevolezza e le emozioni del gruppo.

Fase 5: Test

Challenge your solutions to launch - I prototipi vengono testati rigorosamente. Anche se questa è la fase finale, il Design Thinking è iterativo. I team spesso utilizzano i risultati per ridefinire uno o più problemi successivi. Quindi, si può tornare alle fasi precedenti per effettuare ulteriori iterazioni, modifiche e perfezionamenti, per trovare o escludere soluzioni alternative. L’iterazione può riguardare qualsiasi fase.

Appare chiaro che utilizzando il Design Thinking combiniamo pensiero convergente e divergente, e l’abilità del team leader deve essere focalizzata nel bilanciare efficacemente questi due poli.

Divergent/convergent thinking

I principi di cui sopra possono essere sintetizzati così:

  • La comprensione dei bisogni del cliente è fondamentale.

  • L’approccio è fortemente incentrato sull’uomo.

  • Il valore della prototipazione è grande.

  • Il potere dello schizzo (Show, dont tell).

  • Un approccio al pensiero laterale ben allenato aiuta a evitare i bias cognitivi.

The De Bono Six Hats

I Sei cappelli per pensare sono stati creati e sviluppati dal Dr. Edward de Bono. La tecnica dei Sei cappelli e l’idea associata del pensiero parallelo forniscono ai team un mezzo per pianificare i processi di pensiero in modo dettagliato e coeso e, così facendo, per pensare insieme in modo più efficace.(1)

Sebbene il metodo dei Sei cappelli di De Bono non sia effettivamente incorporato nel Design Thinking, potrebbe rappresentarne una potente integrazione.

 Vediamo nel dettaglio:

  • Il Cappello Bianco si basa sull’analisi di informazioni conosciute o necessarie: “I fatti, solo i fatti.”

  • Il Cappello Giallo simboleggia luminosità e ottimismo. Sotto questo cappello si esplorano gli aspetti positivi e costruttivi e si cercano vantaggi e benefici.

  • Il Cappello del risk management è probabilmente il cappello più potente, ed è un problema, tuttavia, se usato eccessivamente: individua i punti critici e le cause di mal funzionamenti. È per sua natura un cappello d’azione, con l’intento appunto di evidenziare i rischi e superarli.

  • Il Cappello Rosso rappresenta sentimenti, presentimenti e intuizioni. Quando si usa questo cappello, è possibile esprimere liberamente le emozioni e ciò che proviamo, condividere paure, simpatie, antipatie, amori e odio.

  • Il Cappello Verde si concentra sulla creatività, sulle possibilità, sulle alternative e sull’originalità. Ci offre l’opportunità di esprimere concetti e percezioni nuovi.

  • Il Cappello Blu viene utilizzato per gestire in modo strutturato il processo del pensiero. È il meccanismo di controllo che garantisce che le linee guida dei Sei Cappelli del Pensiero® siano osservate.

Qui di seguito gli obiettivi che possono essere raggiunti applicando tale metodologia:

  • Massimizzare la collaborazione produttiva e minimizzare l’interazione e i comportamenti controproducenti

  • Considerare questioni, problemi, decisioni e opportunità in modo sistematico

  • Utilizzare il pensiero parallelo come gruppo o team per generare idee e soluzioni più numerose e migliori

  • Rendere le riunioni molto più brevi e produttive

  • Ridurre i conflitti tra i membri del team o i partecipanti alle riunioni

  • Stimolare l’innovazione generando rapidamente idee in maggior numero e migliori

  • Creare riunioni dinamiche e orientate al risultato, che invoglino le persone a partecipare

  • Andare oltre l’ovvio per scoprire soluzioni alternative efficaci

  • Individuare opportunità dove gli altri vedono solo problemi

  • Pensare chiaramente e oggettivamente

  • Vedere i problemi da angolazioni nuove e insolite

  • Fare valutazioni approfondite

  • Vedere tutti gli aspetti di una situazione

  • Tenere a bada l’ego e la difesa del territorio

  • Ottenere risultati notevoli e significativi in meno tempo

1 https://en.wikipedia.org/wiki/Six_Thinking_Hats





CONCLUSIONI

In chiusura del mio intervento, diviso qui sul sito BluPeak in due parti, ricordo che la tipologia degli attuali scenari di mercato richiedono alle organizzazioni forti capacità per realizzare cambiamenti costanti e regolari. Quindi i due approcci analizzati:

  • l’Agile Mindset, ovvero l’arte di fornire soluzioni flessibili e incrementali, accogliendo il cambiamento,

  • il Design Thinking, cioè l’arte del pensiero laterale, creativo e divergente, che permette di ottenere idee e prodotti radicalmente nuovi, in grado di soddisfare i clienti,

grazie alle caratteristiche precipue di ciascuno, possono essere convenientemente adottati e integrati per massimizzare le capacità di cambiamento richieste. Business Transformation, quindi, non appare più solo un termine ombrello, come viene diffusamente detto, che riunisce tutti gli strumenti necessari, bensì una vera e propria cultura del cambiamento organizzativo in grado di ottenere il successo.

Nell’era dell’Industria 5.0, definita anche come Economia dell’Innovazione, la comunità industriale internazionale ha riconosciuto che, oltre allo sviluppo tecnologico – più spesso digitale – è necessario puntare sulle persone e sui processi, adottando un approccio complesso e olistico alla trasformazione aziendale. Sia l’Agile Mindset (che include l’Agile Project Management e l’Organizational Agility) che il Design Thinking stanno fornendo agli stakeholder del cambiamento un vasto spettro di nuove competenze e di strumenti, opportunamente raccolti in toolkit.

Agile Mindset e Design Thinking sono stati creati per migliorare la capacità di innovazione nelle sfide di cambiamento dirompenti e con scenari incerti; entrambi hanno alternato periodi di moda a periodi di scetticismo, ma altrettanto entrambi sono oggi adottati dai grandi player e vengono riconosciuti, unanimemente, come efficaci tool per comprendere e gestire i cambiamenti.  

Agile Mindset e Design Thinking sono oramai ben sviluppati a livello globale, sufficientemente maturi e soprattutto costantemente perfezionati. Sia l’uno che l’altro sono basati su un approccio human-centered. Risultano inoltre in grado di potenziare le capacità di trasformazione e, nel contempo, possono essere fortemente rafforzati dalla vision e dalla strategia della Business Transormation stessa.

Last but not least, non possiamo non considerare la leadership: la richiesta di questo insieme integrato di capacità, allontanandoci dalle interpretazioni più facili e inefficaci di questa parola oramai abusata, sta diventando sempre maggiore proprio per guidare o sostenere il cambiamento. Importante è esplorarne anche le svariate e differenti dimensioni: leadership interpersonale, organizzativa, strategica, relativa alla mission nonché a sé stessi.

 

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

 

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Agile Mindset&Design Thinking - Prima parte

Agile Mindset&Design Thinking

per una Business Transformation di successo

Prima parte

Prendendo spunto dallo speech che ho avuto il piacere di presentare in contesti internazionali, con due articoli sul nostro blog metterò a confronto l’Agile Mindset e il Design Thinking: due diversi modi di pensare all’innovazione e dar forma al futuro, entrambi centrati sull’essere umano e quindi cruciali per sostenere i manager nella visione e nella guida delle trasformazioni. Andando oltre, e come suggerisce il titolo, indicherò come la loro integrazione possa essere applicata alla gestione di trasformazioni aziendali che siano solide ed efficaci.

Suddividendo quindi il tema in due parti, in questo primo articolo parlerò dell’Agile Mindset.

Being vs Doing Agile

Essere professionisti Agili significa che le azioni e i comportamenti sono guidati e plasmati dai 4 valori e dai 12 principi enunciati nel Manifesto per lo sviluppo agile del software del 2001, comunemente noto come Manifesto Agile, secondo cui l’approccio Agile dà priorità a:

  •  Individui e interazioni più che a processi e strumenti

  • Software funzionante più che a documentazione esaustiva

  • Collaborazione con il cliente più che alla negoziazione del contratto

  • Rispondere ai cambiamenti più che a seguire un piano

Il focus è su quel più che: l’Agile non sta eliminando vecchie pratiche, ma sta dettando una nuova priorità. La differenza chiave tra essere Agile e fare Agile è che essere Agile significa credere nei valori e nei principi enunciati nel Manifesto Agile, mentre fare Agile richiede l’uso di strumenti, tecnologie e metodologie moderne per creare processi di consegna continua che rispettino i princìpi dell’Agile.

Agile project management

I cicli di vita adattativi, come la famiglia di framework agili (Scrum, XP, TDD, ecc.), dovrebbero essere adottati quando si affronta un elevato grado di incertezza, considerandone entrambe le principali dimensioni, sempre presenti e identificabili in ogni tipo di iniziativa di innovazione: uncertainty of requirements e uncertainty of technology (figura sotto).

Uncertainty and complexity model inspired by the stacey complexity model

Agile Practice Guide, by PMI® - Project Management Institute, page 14

L’Agile, o cicli di vita guidati dal cambiamento (iterativi o incrementali), si sforza di ottenere feedback tempestivi dal cliente, attraverso la consegna continua di parti di prodotto o soluzione (potenzialmente rilasciabili). Non tutto il contenuto (scope) è definito chiaramente all’inizio del progetto, ovvero nella fase di pianificazione, come avviene nell’approccio predittivo. Il contenuto dettagliato viene definito e approvato prima dell’inizio di ciascuna iterazione.

 

Val la pena ricordare i 12 principi di un approccio Agile:

 

  1. Soddisfazione del cliente attraverso la consegna tempestiva e continua del software.

  2. Accogliere i cambiamenti dei requisiti, anche in fase di sviluppo avanzato.

  3. Consegnare frequentemente parti di prodotto funzionanti (settimane più che mesi).

  4. Cooperazione stretta e quotidiana tra stakeholder (i soggetti del business) e sviluppatori.

  5. I progetti sono costruiti intorno a individui motivati, con cui creare un rapporto di fiducia.

  6. Parlare faccia a faccia, in maniera diretta, è la migliore forma di comunicazione.

  7. Il prodotto funzionante è il principale metro di misura del progresso del progetto.

  8. Promuovere uno sviluppo sostenibile, in grado di mantenere un ritmo costante.

  9. Porre attenzione continua all’eccellenza tecnica e alla buona progettazione.

  10. La semplicità, ovvero l’arte di massimizzare la quantità di lavoro non svolto, è essenziale.

  11. I migliori requisiti e progetti emergono da team che si auto-organizzano.

  12. Con tempi regolari, il team riflette su come diventare più efficace e si adatta di conseguenza.

 

La figura seguente mostra la relazione tra Mindset, Valori, Principi, Pratiche, nonché l’opportunità di raccogliere e armonizzare le pratiche in framework, standard o personalizzati.

The Agile Funnel - A model for change

Image credit: Ahmed Sidky, from cprime.com (1)

Scrum, il framework Agile più popolare e adottato, è stato sviluppato nei primi anni ‘90. Nel 2010, Ken Schwaber e Jeff Sutherland hanno scritto la prima versione della Scrum Guide, nel tempo aggiornata, per aiutare le persone in tutto il mondo a comprendere Scrum.

Secondo The Scrum Guide (2):

  • Scrum si basa sull’empirismo e sul pensiero lean. L’empirismo afferma che la conoscenza proviene dall’esperienza e da decisioni prese in base a ciò che viene osservato. Il pensiero lean riduce gli sprechi e si concentra sugli elementi essenziali.

  • Scrum utilizza un approccio iterativo e incrementale per ottimizzare la prevedibilità e controllare il rischio. Scrum coinvolge gruppi di persone che, collettivamente, hanno competenze ed esperienze necessarie per svolgere il lavoro e condividono o acquisiscono tali competenze in base alla necessità.

  • Scrum combina quattro eventi formali per l’ispezione e l’adattamento all’interno di un evento che li contiene, lo Sprint. Questi eventi funzionano perché implementano i pilastri empirici di Scrum: trasparenza, ispezione e adattamento.

Oltre a Scrum, sono stati sviluppati altri framework agili, come XP (Extreme Programming), FDD (Function Driven Development), TDD (Test Driven Development) e, parzialmente sovrapponibili, Kanban e Lean. E oltre a questi, il PMI® (Project Management Institute), raccogliendo un insieme comune di linee guida e strumenti, ha sviluppato un approccio più generale e agnostico, contenuto nell’Agile Practice Guide.

Organizational Agility

L’idea di Organizational Agility non si concentra esclusivamente sulla gestione di progetti agili, bensì su una capacità aziendale di adattarsi e reagire ai cambiamenti. Il termine è stato definito molto prima della recente crisi pandemica, considerando gli attuali scenari aziendali parte del mondo VUCA (3); negli ultimi anni di crisi, la connessione tra Organizational Agility e l’idea di resilienza ha continuato a rafforzarsi. Alcuni autori spiegano l’Organizational Agility come la capacità di sviluppare strategie resilienti, mentre altri considerano l’agilità più vicina al pensiero lean, spostando quindi l’attenzione più su processi efficienti che sulla capacità di cambiare.

Secondo lo Scaled Agile (SAFe), “La competenza di Organizational Agility descrive come le persone orientate al pensiero lean e le squadre agili ottimizzano i loro processi aziendali, evolvono la strategia con nuovi impegni chiari e decisi e si adattano rapidamente all’organizzazione secondo necessità per sfruttare nuove opportunità”. (4)

Agile Mindset

Adottiamo l’espressione Agile Mindset per sottolineare che abbiamo soprattutto bisogno di un insieme di strumenti cognitivi e decisionali per affrontare un mondo in costante cambiamento e con un alto grado di incertezza. Alcuni pilastri dell’Agile Mindset sono:

  • Approccio basato sul valore: l’unico driver dovrebbe essere il valore aziendale

  • Ricerca di feedback tempestivo dal cliente

  • La cultura di stabilire priorità, l’idea di Minimum Viable Product (MVP)

  • Accogliere i cambiamenti anche se intervengono in una fase avanzata del progetto

  • Eccellente progettazione, unita allo sforzo per la semplicità (less is more)

  • Primato della face-to-face communication

  • Costruzione di fiducia all’interno del team

  • Potere dei team auto-organizzati, idea di servant leadership

  • La cultura della retrospettiva: una costante auto-osservazione per imparare dalle esperienze del singolo e del team.

 Un tentativo di includere sia l’Agile project management che l’Organizational Agility ha portato al metodo DSDM (Dynamic Systems Development Method).

THE DISCIPLINED AGILE (DA) TOOL KIT

In base alla definizione del PMI® - Project Management Institute, il DA® tool kit è un kit di strumenti per team o aziende che sfrutta centinaia di pratiche agili per condurre al modo migliore di lavorare. L’idea di base, dopo anni di applicazioni di framework, è che “La vera agilità aziendale deriva dalla libertà, non dai framework”, combinata con l’idea che ogni azienda dovrebbe essere libera di adottare un approccio ibrido altamente personalizzato, sfruttando comportamenti originali.

Nella storia dei modelli organizzativi, specialmente quelli che si prefiggono di essere al servizio dell’innovazione, abbiano già assistito in diverse epoche alla paradossale evoluzione di alcuni paradigmi: nati proprio per “liberare” la comunità degli sviluppatori (intendendo con questo termine in senso lato chi si occupa di costruire il nuovo attraverso iniziative progettuali) da vincoli, dogmi e prescrizioni spesso insiti nei framework, talvolta si sono trasformati con il tempo e la stratificazione delle pratiche in nuovi sistemi dogmatici.

Riteniamo in ogni caso di grande attualità ed efficacia i concetti di ibridazione e tailoring, che devono far parte di ogni moderno approccio metodologico.

Stefano Setti

CEO&Founder di BluPeak Consulting

1 https://www.anagilemind.org/articles/the-agile-funnel-a-model-for-change

2 The Scrum Guide - The Definitive Guide to Scrum: The Rules of the Game, by Ken Schwaber & Jeff Sutherland, November 2020

3 VUCA is an acronym coined in 1987, to describe or to reflect on the volatility, uncertainty, complexity and ambiguity of general conditions and situations,
https://en.wikipedia.org/wiki/Volatility,_uncertainty,_complexity_and_ambiguity

4 © Scaled Agile, Inc. https://scaledagile.com/

 

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La meta del cambiamento… Un viaggio in 4 tappe

Quattro incontri su alcune tematiche connesse alla trasformazione organizzativa


26 marzo - 4 luglio - 3 ottobre - 29 novembre 2024

I quattro webinar, organizzati da Blulink srl, di cui BluPeak è partner, presentano la meta del cambiamento come una cima, impegnativa ma al contempo alla portata di tutti, da raggiungere con adeguati strumenti culturali, cognitivi e metodologici.

Il CEO & Founder di BluPeak, Stefano Setti, e tre Business Transformation Expert del Team BluPeak, Luca Costa, Andrea Calisti e Dalia Vodice, guideranno i partecipanti durante ciascuna tappa, fornendo gli strumenti di cui sopra!

Il primo incontro è per martedì 26 marzo 2024: Stefano Setti ci terrà nel “Campo base” con “I fondamentali della Business Transformation”.

L’appuntamento è online dalle 11:30 alle 12:15.

Info e iscrizione al
sito di Blulink

Globalizzazione: fine dei giochi?

Globalizzazione: dopo 25 anni sembra necessario un cambiamento di approccio

Foto di Paul Brennan - Pixabay

Il mondo industriale italiano è ancora in fermento. Nell’automotive, in questi giorni sono circolate voci sull’arrivo in stabilimenti italiani della produzione di auto elettriche di origine cinese, date in appalto per salvare i livelli occupazionali.

Quasi nello stesso tempo è apparso sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “Pannelli fotovoltaici, tutti i numeri del dominio cinese: la transizione green passa solo da Pechino”, nel quale  la Redazione Economia del quotidiano milanese, partendo dai numeri pubblicati in un rapporto ENEL-Ambrosetti, mette in evidenza la condizione di difficoltà in termini di competitività in cui si trova l’Europa, a causa di costi operativi in ingresso molto più alti di quelli cinesi e di una filiera priva di economie di scala.

Foto di Sumanley xulx - Pixabay

Questi due casi – a prescindere dalle riflessioni specifiche di molti commentatori – sono, a mio avviso, un esempio dell’effetto che la cosiddetta globalizzazione, tanto incoraggiata in passato, ha prodotto: il depauperamento e il declino tecnologico di intere filiere industriali del nostro continente.

Negli anni dell’immediato dopoguerra (tra i ’50 e i ’70 del XX secolo) alcuni paesi sono stati oggetto di iniziative industriali volte a riutilizzare tecnologie e ad esportare prodotti divenuti ormai obsoleti in Europa, con lo scopo di dar loro una “seconda giovinezza”, allungandone il ciclo di vita e ricollocando contemporaneamente – in tutto o in parte – i macchinari impiegati per la loro realizzazione.

Foto di Pete Linforth - Pixabay

Successivamente, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino e grazie alle aperture dei governi locali, molte aziende hanno visto nei mercati asiatici, come quello cinese, sia un serbatoio di manodopera a costi convenienti, sia un potenziale sbocco per i propri prodotti. Ecco, quindi, che intere produzioni sono state spostate dall’Europa o sono state addirittura sviluppate e industrializzate sul posto. Questo processo ha favorito la nascita e lo sviluppo di capacità tecniche locali, mentre in Europa si è assistito a un progressivo depauperamento tecnologico di interi settori industriali – come quelli citati ad esempio - che hanno perso, complici anche visioni industriali e politiche inadeguate, linfa vitale nello studiare e implementare nuovi prodotti e tecnologie; la stessa linfa che negli anni ha invece arricchito e trasformato in concorrenti agguerriti i paesi che erano visti come territorio, se non di conquista, almeno di colonizzazione industriale.

Oggi il risveglio è brusco. Ci accorgiamo di essere rimasti indietro in settori tecnologici cruciali e fatichiamo a tenere/recuperare il passo.

Questa situazione tende a essere preoccupante se consideriamo le potenziali ripercussioni dei conflitti esistenti in diverse parti del mondo (in Ucraina, ma anche in Medio Oriente e in Africa), per non parlare dei rapporti USA-Cina, che potrebbero condizionare la disponibilità di prodotti e tecnologie sui quali non abbiamo più la capacità di governo.

Foto di alex dutemps - Pixabay

Oltre ai fattori di cui sopra, anche i cambiamenti climatici impongono una riflessione sull’impatto ambientale dei trasporti delle merci, rendendo sempre più urgente la definizione di una nuova politica industriale che possa rilocalizzare le produzioni e ridare energia a interi comparti della manifattura europea.

È questa una trasformazione di business che impatta su un intero continente e che richiede una nuova visione per recuperare, salvaguardare e mettere al centro delle scelte strategiche la dimensione locale di territori capaci di esprimere ancora elevati livelli tecnologici e manufatturieri.

È necessario che tale visione trovi spazio e applicazione in tutti quei settori, dai beni strumentali materiali, all’informatica e allo sviluppo dei software, le cui applicazioni consentono il funzionamento dei diversi comparti dell’economia.

Per applicare una siffatta strategia con successo, uno strumento è senza dubbio la creazione e lo sviluppo di centri di formazione, sia da parte delle istituzioni pubbliche che delle aziende. Accademie che possano favorire la conservazione e la continuità dei saperi e delle competenze, ma anche il loro incremento attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti e processi sempre più efficienti e sostenibili per l’intero ecosistema.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Dal mondo dell’automotive

Rumor dall’automotive: riflessioni su fusioni e organizzazione agile

Il mondo dell’automotive è, senza dubbio, uno dei campi industriali che negli ultimi tempi ha dimostrato un certo fermento. Nuove tecnologie, ricadute occupazionali e strategie di alleanze tra costruttori stanno monopolizzando l’attenzione degli addetti ai lavori. Ogni cambiamento ha inevitabilmente delle ricadute sull’organizzazione e sulle prestazioni dei processi aziendali e perciò ci è sembrato opportuno cogliere l’occasione per fare alcune riflessioni di portata generale.

L’evoluzione degli scenari

Foto di L. Pennino

Nelle ultime settimane il settore automotive, soprattutto in Italia, è stato oggetto di diversi rumor e dichiarazioni.

Foto di Fabio - Pixabay

Si è parlato e ancora si discute del futuro di stabilimenti di produzione un tempo tempio dell’auto Made in Italy; parliamo di Mirafiori, da cui sono usciti, dal 1939 a oggi, modelli Fiat entrati nella storia (500, 600, 850, 127, 128, 131, Uno, Punto e innumerevoli altri) e di Pomigliano d’Arco, culla dell’Alfasud (modello con soluzioni tecniche innovative, del quale nel 2022 sono stati festeggiati i 50 anni).

Sono state evocate possibili nozze tra i costruttori Renault e Stellantis, puntualmente smentite dai top manager delle rispettive aziende. Sono stati infine pubblicati e commentati i dati di vendita del 2023 che vedono, a livello mondiale, la conferma della leadership di Toyota (con oltre 11 milioni di unità vendute) e le altre posizioni del podio occupate da Volkswagen e Hyundai-Kia, mentre Renault e Stellantis si dovrebbero ragionevolmente piazzare (in base ai conteggi delle vendite in elaborazione) rispettivamente al quarto e al quinto posto della classifica.

Riflessioni

Gli avvenimenti sopra citati inducono ad alcune riflessioni che non sono strettamente attinenti al mondo dell’automotive, ma hanno una portata generale.

Innanzitutto sulla questione delle fusioni e della riduzione del numero dei player a livello mondiale. Sergio Marchionne, circa dieci anni orsono, aveva ipotizzato un massiccio movimento di consolidamenti nel settore automotive, che avrebbe razionalizzato il numero di costruttori, in particolare europei. Guardando la situazione a posteriori, il fenomeno, nella portata ipotizzata, non si è verificato. Certamente le alleanze sono importanti, specialmente in un settore nel quale gli investimenti, per mantenere i prodotti al passo con le evoluzioni tecnologiche, sono importanti sia dal punto di vista tecnico che sotto il profilo economico.

Foto di Günther Schneider - Pixabay

Come però ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera Luca De Meo (CEO di Renault), questa condizione non è sufficiente e rischia di rappresentare la ricerca di soluzioni concettualmente facili a problemi complessi: «Se il mercato è molto volatile e l’ingegnosità molto evolutiva, serve un’organizzazione agile, flessibile, piccola da gestire, per orientare i consumatori all’innovazione e non solo alla riduzione dei costi.»

Organizzazione agile e flessibile dunque, eliminazione degli sprechi più che indiscriminata riduzione dei costi: ecco dei concetti noti a quanti hanno avuto modo di approfondire metodi e strumenti del Toyota Production System, da cui è nata la Lean Organization.

Ottimizzare le attività, minimizzando o eliminando quelle prive di valore aggiunto, consente di migliorare le prestazioni e i risultati, ma anche di liberare delle risorse finanziarie utili per investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi processi e nuovi prodotti.

L’investimento in Ricerca e Sviluppo è, infatti, un altro dei settori strategici su cui occorre puntare in modo deciso, anche a costo di sacrificare l’entità dei dividendi agli azionisti, per assicurare un futuro all’impresa. A questo proposito Toyota ha mostrato negli anni un deciso orientamento in tal senso (evidenziato anche dal numero di brevetti detenuti), mentre, per Renault, De Meo, parlando della nuova Twingo (prevista in uscita nel 2026), sempre al Corriere dichiara: «Con lei avremo riscritto le regole del gioco nello sviluppo dei prodotti Renault. La sua formazione richiederà al massimo due anni, un tempo determinante per captare la capacità di reazione del mercato che influisce sulla riduzione dei costi di tutti i futuri progetti. Sarà la vera risposta ai costruttori cinesi, dimostreremo che l’industria dell’automobile europea può essere competitiva e produttiva.»

Foto di andreas160578 - Pixabay

Inoltre, a proposito dell’auto elettrica, altro soggetto di discussione e confronto tra diverse scuole di pensiero, il manager evidenzia come, per alcuni utilizzi, sia migliore dell’auto a combustione interna (ad esempio nelle aree urbane grazie al vantaggio di non diffondere emissioni inquinanti e di avere un funzionamento silenzioso).

Chiaramente il costo è più elevato rispetto alle vetture con motore a benzina o diesel e per ridurlo è necessario un impegno sia da parte del mondo politico sia da parte del mondo della ricerca e dell’industria, perché il progresso non può essere arrestato o, peggio, rifiutato senza correre il rischio di fare un passo indietro.

Personalmente le considerazioni espresse dal CEO di Renault mi trovano molto d’accordo. Spesso ho segnalato, come esempio di esperienza industriale felice, la strategia applicata dall’ing. Adriano Olivetti nella guida dell’azienda omonima. Nelle riflessioni sopra citate si ritrovano un orientamento al prodotto (e non solo ai profitti), al mercato, ma anche alla modalità di organizzare e di sviluppare le attività delle diverse funzioni aziendali, che possono ricordare quanto applicato dall’industriale di Ivrea, che dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione di politica industriale e di evoluzione del business da parte di politici e imprenditori.

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Innovazione e cambiamento per le PMI

Innovazione e cambiamento: fattori strategici per la sopravvivenza delle Piccole e Medie Imprese

L’importanza di un supporto efficace per affrontare questo percorso


L’evoluzione degli scenari

Foto di Augusto Ordóñez -Pixabay

L’inizio dell’anno è sempre un momento di bilanci e di indagine sulle prospettive per il futuro. Secondo alcuni esperti, l’anno appena iniziato sarà per la nostra industria interlocutorio per effetto delle dinamiche dell’economia mondiale, che l’Italia riuscirà a superare continuando a valorizzare la diversificazione della propria economia e del proprio tessuto imprenditoriale.

In questo contesto di analisi e aspettative, si inseriscono anche le statistiche e le previsioni di Cerved, la società che dal 1973 studia le evoluzioni del mondo imprenditoriale.

Secondo il Rapporto Cerved PMI 2023, a un 2022 positivo per le PMI italiane (+6,1% di fatturato, +3,2% di valore aggiunto), nel 2023 si è avuta un’inversione della tendenza, causata dall’inflazione, dal rialzo dei tassi di interesse e dalle note situazioni di conflitto in atto nello scenario geopolitico. Sempre secondo le previsioni 2024-2025 elaborate da Cerved, sarebbero a rischio l’8,5% delle piccole e medie imprese; inoltre lo scorso anno, per la prima volta dal 2019, sono tornate a crescere le chiusure di impresa (+33,3%), in particolare nel settore manifatturiero.

Nuove sfide imprenditoriali

Nei prossimi anni le aziende si troveranno quindi ad affrontare nuove sfide, operando scelte strategiche per assicurare la loro stessa sopravvivenza.

Inevitabilmente si assisterà a una sorta di selezione naturale che, secondo gli esperti, interesserà in particolare le PMI e che potrà essere superata solamente con delle decisioni mirate di investimenti, di diversificazione e di innovazione. Solo gli imprenditori che sceglieranno di non stare alla finestra potranno mantenere e accrescere il proprio livello di competitività e le proprie quote di mercato, superando la congiuntura sfavorevole e fronteggiando efficacemente la concorrenza europea ed extra-europea.

Foto di neo tam - Pixabay

Per poter fare degli investimenti occorrono però risorse finanziarie e per poter disporre di tali mezzi senza aumentare l’indebitamento dell’azienda, la strada obbligata è quella della riorganizzazione delle attività, che però non vuol dire tagliare indiscriminatamente produzione e personale. Un progetto di riorganizzazione aziendale efficace deve porsi come obiettivo l’eliminazione delle attività prive di valore aggiunto, con la conseguente liberazione di risorse finanziarie da indirizzare, ad esempio, nello sviluppo di nuovi prodotti, nella ricerca di opportunità di mercato diverse e nella formazione per la riqualificazione del personale.

A riguardo, è interessante la citazione tratta dal discorso fatto da Adriano Olivetti in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli (aprile 1955):

«Innalzare le nostre insegne a New York come a Francoforte, a Vienna come a San Francisco, a Rio de Janeiro o a Città del Messico o nella lontana Australia, organizzare officine, istruire venditori (…) garantire l’efficienza del personale, assicurare ovunque un servizio di assistenza tecnica (…) non fu cosa né facile, né rapida.

E questa lotta non avrà mai fine, poiché la concorrenza, le invenzioni, i perfezionamenti non hanno limiti e dovremo, sotto questo riguardo, non dar mai segni di stanchezza, alimentando di nuove forze tecniche i nostri laboratori di ricerche, i nostri centri studi.» (Adriano Olivetti “Ai Lavoratori”, Edizioni di Comunità).

Foto di Mohamed Hassan - Pixabay

Nel testo riportato è efficacemente riassunto l’atteggiamento delle imprese virtuose, che guardano costantemente al prodotto, all’innovazione e al mercato, per cogliere i cosiddetti “segnali deboli” e sfruttare tempestivamente le opportunità. Sono queste le aziende capaci di risollevarsi da momenti di crisi e sulla base dell’indice “Back-to-Bonis Score” (sviluppato sempre da Cerved mediante algoritmi predittivi che stimano le capacità di recupero per ogni posizione deteriorata o a rischio di deterioramento); tra queste si annoverano le imprese a controllo familiare, quelle con un amministratore delegato esterno, le startup innovative, le aziende guidate da under 35 e quelle con una leadership femminile.

Il ruolo della consulenza

Per operare efficacemente una riorganizzazione, è opportuno che la Direzione aziendale valuti con serenità di ricorrere a un supporto di consulenza. Spesso, infatti, l’imprenditore è assorbito dalle questioni correnti e dalle esigenze immediate e, se non viene adeguatamente assistito, non è in grado di dedicare il tempo adeguato e la giusta riflessione alle strategie di riorganizzazione.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

Inoltre, la partecipazione ai progetti di figure qualificate con una conoscenza ad ampio spettro delle realtà imprenditoriali, consente di studiare e di implementare soluzioni derivanti da tale bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Infine, è importante procedere con metodo, e a questo proposito, una garanzia di affidabilità è costituita dalla certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015. La certificazione garantisce, ad esempio, lo sviluppo delle diverse fasi del processo di consulenza a partire da un’analisi di rischi e opportunità e dalla definizione di specifici obiettivi di risultato.

Il consulente, oltre a saper analizzare le situazioni correnti, deve essere capace di costruire e proporre le opzioni di scenario più funzionali alle caratteristiche dell’azienda e guidare l’imprenditore verso una scelta consapevole che permetta percorsi da seguire con costanza e continuità.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

BluPeak Consulting è un’azienda con Sistema di Gestione della Qualità certificato secondo la norma ISO 9001:2015

Lifelong Learning

Cogito ergo sum, ovvero mantenere il know how e la competitività con la formazione continua


Le origini

Quando si parla di formazione, è ormai un fatto acquisito non riferirsi solamente all’ambito scolastico o universitario, né a un ciclo di apprendimento circoscritto nel tempo. Da diversi anni è entrato nel linguaggio comune il concetto di lifelong learning, ossia di apprendimento continuo, che ha cambiato il modo di intendere la costruzione, il mantenimento e l’accrescimento della conoscenza nei diversi settori lavorativi, dalle libere professioni al lavoro dipendente.

L’idea di una formazione continua, spesso di tipo esperienziale (training on the job), nasce intorno agli anni ’30 del XX secolo. I primi destinatari sono gli operai che, nelle fabbriche in cui viene applicata l’organizzazione scientifica del lavoro (il cosiddetto taylorismo) devono apprendere e applicare nuove modalità di lavorare secondo fasi specifiche e ripetitive, rigidamente temporizzate.

Negli anni ’70 l’educazione permanente inizia ad avvicinarsi alla forma attuale. Nel 1972 viene pubblicato dall'UNESCO il rapporto Faure intitolato “Learning To Be”. Nel documento viene definito un concetto che influenzerà le politiche educative e formative conseguenti. La formazione deve essere fondata sulle esigenze della persona per cercare di migliorare complessivamente la qualità della vita personale e professionale. Non si parla più solo di acquisire conoscenze in un preciso periodo della vita (tradizionale percorso accademico di studi o acquisizione di un mestiere), ma di un apprendimento continuo in linea con i mutamenti della società e del lavoro.

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio il lifelong learning completa la propria connotazione acquisendo la forma attuale.

La formazione continua oggi: le “Academy”

In ambito aziendale, il concetto di formazione continua è spesso declinato mediante specifiche strutture organizzative: le Academy.

La creazione di una simile struttura riveste un duplice scopo:

  • trasmettere alle nuove generazioni il prezioso bagaglio di esperienza, il know how maturato dall’impresa nel corso degli anni e custodito da operai e tecnici qualificati;

  • assicurare la formazione delle nuove leve di operai e tecnici integrando i percorsi scolastici e universitari già citati.

Anche il concetto di Academy aziendale non è nuovo. Nel 1922 nasceva la “Scuola Allievi Fiat” (poi ISVOR-Fiat) seguita nel 1927 dall’Academy di General Motors. Tra gli anni ’30 e ’40 del XX secolo, Olivetti dava vita al Centro di Formazione Meccanici e a un Istituto Tecnico Industriale. Nel secondo dopoguerra meritano di essere citati gli esempi della Scuola di Studi Superiori sugli Idrocarburi dell’ENI del 1957 (fortemente voluta e promossa da Enrico Mattei come strumento strategico di formazione delle risorse che avrebbero contribuito alla nuova politica energetica sviluppata dallo stesso Mattei in campo internazionale) e la Scuola Superiore Guglielmo Reiss Romoli per le telecomunicazioni, creata dalla STET nel 1972.

Non tutte le istituzioni sopra citate sono oggi ancora attive. Tra le iniziative che attualmente promuovono la formazione continua in azienda è opportuno citare la Tod's Academy e quella di Prada, che consentono a esperienze artigianali di nicchia nel campo della pelletteria e della moda di sopravvivere ed essere tramandate alle giovani generazioni, assicurando loro anche un futuro professionale nell’impresa.

Anche BluPeak ha avuto modo di confrontarsi con un progetto di creazione di un’Academy aziendale fornendo il proprio know how consulenziale a un’impresa del settore impiantistico la cui Direzione ha mostrato di essere sensibile alle tematiche della formazione continua, come evidenziano queste considerazioni del General Manager della società:

«In 50 anni non abbiamo mai perso un cliente per un problema non risolto. Per mantenere questi standard, garantiamo un’adeguata formazione continua a tutti i collaboratori: BluPeak Consulting ci affianca con professionalità e successo in queste attività importanti.»

L’importanza della consulenza e di una formazione certificata

Per lo sviluppo delle specifiche iniziative di formazione, così come per la creazione di un’Academy, le aziende possono appoggiarsi su risorse interne, ma anche affidarsi a un supporto consulenziale esterno.

Questa seconda alternativa permette di arricchire l’organizzazione e i contenuti della formazione grazie all’esperienza dei consulenti derivante dalle relazioni e dal confronto con diverse realtà. Uno sguardo esterno consente inoltre di focalizzare e valorizzare opportunamente eventuali aspetti e contenuti che potrebbero sfuggire all’imprenditore.

Infine, la possibilità di affidarsi a organizzazioni che adottano un Sistema di Gestione per la Qualità certificato secondo lo standard di riferimento ISO 9001:2015 garantisce un alto livello di affidabilità sia per quanto riguarda la scelta dei docenti, sia per la progettazione e l’erogazione dei contenuti secondo modalità codificate e validate dall’Ente esterno che emette la certificazione (esempio TuV Italia, IMQ, DNV, Kiwa, Rina, ecc.).    

Gli incentivi per la formazione continua

Anche il legislatore ha da tempo riconosciuto l’importanza della formazione continua e di incoraggiare le iniziative mediante appositi incentivi.

Il principale strumento di incentivazione della formazione è costituito dai Fondi Paritetici Interprofessionali.

I Fondi Paritetici Interprofessionali (istituiti con la Legge 388/2000) sono organismi di natura associativa finalizzati alla promozione di attività di formazione rivolte ai lavoratori occupati. Per queste attività, i Fondi sono autorizzati a raccogliere lo 0,30% della retribuzione del singolo lavoratore versato all’INPS dalle aziende iscritte al Fondo stesso come "contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria" e a utilizzare queste risorse per promuovere azioni formative volte a qualificare – in sintonia con le strategie aziendali – i lavoratori dipendenti.

Altri incentivi alla formazione sono istituiti con bandi regionali, spesso collegati alla erogazione di fondi europei.

Infine, la revisione del PNRR operata dal Governo italiano, insieme alla riformulazione degli obiettivi e delle risorse, individua una dotazione di circa 6,4 miliardi di euro per incentivi che saranno indirizzati su tre aree specifiche per l’efficientamento dei processi:

  • efficienza energetica;

  • produzione e autoconsumo di energia;

  • formazione.

Per quanto riguarda la formazione, vale la pena ricordare che tra i soggetti che possono provvedere direttamente alla creazione e alla realizzazione di progetti finanziati con le modalità sopra citate, sono esplicitamente menzionate le organizzazioni – come ad esempio BluPeak – che possiedono la certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015 per il settore IAF (International Accreditation Forum) EA 37 (Istruzione).

Conclusioni

Dalle considerazioni che abbiamo cercato di sviluppare, appare evidente come la formazione continua delle risorse sia un fattore strategico per le imprese in grado di garantirne la continuità nel tempo e la competitività nel mercato.

A tale scopo è opportuno che le aziende si dotino di uno specifico budget da destinare sia al mantenimento e allo sviluppo di una specifica organizzazione dedicata alla conservazione e allo sviluppo del know how d’impresa, sia all’organizzazione di iniziative di formazione (con un eventuale supporto esterno) integrando eventuali incentivi messi a disposizione dallo Stato.

Il patrimonio intellettuale rappresentato dalle persone che lavorano in azienda è, senza ombra di dubbio, il principale bene intangibile dell’impresa, su cui investire rappresenta una priorità strategica.

Gianni Berengo Gardin - Olivetti Pozzuoli

Lo aveva intuito correttamente Adriano Olivetti quando diceva:

“La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”.



Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak

BLUPEAK - IL BUSINESS È CULTURA ORGANIZZATIVA

Adriano Olivetti, imprenditore visionario

Esistono ancora in Italia imprenditori visionari capaci di operare la Business Transformation?

L’esempio di Adriano Olivetti e le trasformazioni industriali di oggi

Quando si parla di imprenditori visionari, l’esempio che viene sempre citato è quello di Steve Jobs. Senza nulla togliere a questo protagonista della storia recente, il cui merito è senza dubbio quello di aver saputo declinare in modo inedito oggetti di uso quotidiano (pc e telefonini) e di offrire al mercato proposte innovative (iPod e tablet), anche in Italia abbiamo avuto un modello eccellente di imprenditore, le cui intuizioni hanno portato importanti rivoluzioni di prodotto e hanno consentito a un’azienda nata nel Piemonte agricolo, di diventare protagonista sui mercati di tutto il mondo.

Adriano Olivetti: l’uomo, la fabbrica e il mondo

Difficile riassumere il personaggio Adriano Olivetti (qui in una foto del 1957) in una definizione unica ed esauriente, considerato il contributo che ha fornito all’economia italiana del secondo dopoguerra e alla storia della cultura industriale in generale.

Imprenditore, intellettuale, politico (purtroppo con scarso successo), innovatore, urbanista, Olivetti era certamente un visionario (attribuendo alla vision il senso di percezione strategica dell’evoluzione e del fine ultimo che le organizzazioni devono perseguire per raggiungere e mantenere livelli di eccellenza), probabilmente in anticipo sui tempi per l’epoca in cui ha vissuto e ha espresso le sue idee.

Per capire la portata del pensiero di Olivetti, è opportuno citare alcune frasi tratte dal discorso fatto ai lavoratori in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento campano di Pozzuoli nel 1955. Le sue parole precisano il ruolo che un’azienda riveste non solo nel sistema produttivo in generale, ma anche nel tessuto sociale del territorio in cui opera:

“Il segreto del nostro futuro è fondato, dunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda.”

“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di fabbrica?”

“La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza (...) una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe, infine, della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di elevamento sociale.”

L’azienda è concepita e presentata dunque come entità dinamica, innovatrice nei metodi e nelle attrezzature, ai cui obiettivi concorrono in maniera consapevole tutti i componenti dell’organizzazione (dal dirigente all’apprendista); azienda come strumento di riscatto e di prosperità collettiva e non solamente come fonte di profitto per gli azionisti.

Queste idee, espresse con forza e profondamente radicate nelle convinzioni di Olivetti, rappresentano i cardini del pensiero olivettiano, la cui architettura vede Fabbrica, Persone e Territorio come realtà interconnesse che operano scambi reciproci e si influenzano l’un l’altra, vivendo e crescendo in simbiosi con reciproco beneficio.

La fabbrica costituisce un organismo socioeconomico i cui componenti devono operare in sinergia per un fine comune e condiviso. Il profitto non può rappresentare il fine ultimo e principale dell’industria. La fabbrica deve essere aperta e partecipe delle vicende del territorio in cui opera.

Dall’inizio degli anni 30 del secolo scorso, quando arriva ai vertici aziendali, Olivetti indirizza la propria linea gestionale secondo tre direttrici di strategia precise, che portano la società a operare un’importante trasformazione di business:

  • il prodotto;

  • i mercati;

  • le persone.

Nel 1932 esce la MP1, tra le prime macchine da scrivere portatili per dimensioni e peso (circa 5 kg per un’altezza di 11 cm), ma soprattutto il primo prodotto Olivetti nel quale viene applicato, per la prima volta, un concetto caro all’ingegnere, che diventerà il filo conduttore delle politiche di prodotto aziendali e sarà fonte di prestigiosi riconoscimenti: il design.

Erede dell’MP1 sarà negli anni ’50 la Lettera 22, nata da un progetto di Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio, che nel 1959 vincerà il premio “Compasso d’Oro” per il design e che è esposta nella collezione permanente di design al “Museum of Modern Art” di New York.

Sotto la spinta di Olivetti vengono anche rinnovati gli edifici aziendali applicando concetti architettonici inediti e viene dato impulso alla ricerca su settori innovativi (le macchine da calcolo, l’elettronica), vengono aperti nuovi mercati e, soprattutto, viene creata una rete di punti vendita unica nel suo genere, nella quale al prodotto viene affiancata l’estetica dei locali, un’attenzione al design degli ambienti e degli arredi.

Adriano Olivetti può, a tal riguardo, essere considerato a pieno titolo l’inventore del concetto di showroom nel senso moderno del tema. Un interessante esempio di questa filosofia è lo showroom Olivetti di New York (dove le macchine erano poste su piedistalli all’esterno del locale, a disposizione di chiunque volesse provarle) e il Negozio Olivetti di Venezia, progettato dall’architetto Carlo Scarpa, e che oggi restaurato, è visitabile come spazio museale.

Negli anni 50 e 60, alle macchine da scrivere e da calcolo si affianca un settore emergente: l’elettronica. Anche qui Olivetti ha intuizioni geniali, una per tutte sostenere le ricerche dell’ing. Mario Tchou, brillante tecnico italo-cinese, padre dell’Olivetti ELEA (ELaboratore Elettronico Automatico), primo calcolatore a transistor che rispetto agli elaboratori a valvole allora esistenti abbinava rapidità di lavoro e ingombri ridotti. 

L’ELEA 9003 viene presentato alla Fiera di Milano nel 1957. È un grande successo della ricerca e dell’industria italiana, che apre l’era informatica della Olivetti che porterà l’azienda ai vertici mondiali dell’informatica di consumo, con prodotti che coniugano design e prestazioni.

Altro caso da ricordare è sicuramente la vicenda tecnica del progetto P101 che, nato inizialmente come prodotto sperimentale, è di fatto diventato il primo esempio di computer “da tavolo” a cui si ispirerà l’americana HP per le proprie macchine da calcolo e che sarà utilizzato dalla Nasa per le missioni lunari.


L’eredità di Adriano Olivetti nell’industria italiana di oggi

La prematura e improvvisa morte di Adriano Olivetti (avvenuta nel 1960 ad appena 59 anni) ha sicuramente privato l’industria italiana di un protagonista che molto avrebbe potuto ancora dare al contesto sociale ed economico, e che ha avuto pesanti ripercussioni anche sull’evoluzione della stessa azienda Olivetti, oggi di fatto scomparsa.

Se si volessero riassumere in breve gli insegnamenti di Adriano Olivetti si potrebbe dire:

  • una fabbrica è fatta prima di tutto di PERSONE;

  • un’industria vive di PRODOTTI;

  • AZIENDA e TERRITORIO sono intimamente legati da comuni obiettivi di sviluppo.

Tenendo presente tali brevi massime, tuttora estremamente attuali, viene spontaneo chiedersi se nel contesto industriale di oggi si possono trovare degli eredi del pensiero olivettiano.

Senza fare nomi, possiamo dire che oggi in Italia, ma anche in altri paesi industrializzati, sono individuabili due macrocategorie di “capitani d’industria”:

  • i capitalisti;

  • gli imprenditori.

I primi sono proiettati verso una dimensione dell’azienda prettamente finanziaria che guarda molto ai dividendi e meno al consolidamento e allo sviluppo attraverso l’innovazione di prodotto, la ricerca di nuovi mercati, il radicamento nel territorio e la conservazione del know how. Per costoro, gli investimenti sono pilotati esclusivamente dalla capacità di essere remunerativi e non sono necessariamente legati a una tipologia di prodotto o a un luogo di produzione specifico. Essi agiscono in funzione di una logica che, tra gli stakeholder aziendali, mette l’azionista al primo posto. Così le aziende si trovano a essere delle entità astratte e prive di radici e personalità, come nella definizione che il sociologo Franco Ferrarotti ha dato delle multinazionali.

I secondi sono coloro che si impegnano in azienda in prima persona affrontando ogni giorno i problemi e le sfide che nascono nella fabbrica, che seguono le evoluzioni del mercato cercando costantemente nuove opportunità e investono i guadagni nel miglioramento delle tecnologie e dei macchinari e nell’ampliamento delle infrastrutture anziché in dividendi, perseguendo una logica di sviluppo nel rispetto delle proprie radici, che coinvolgono i familiari e i figli nella gestione dell’azienda perché capiscano il valore del lavoro, imparino e sappiano dare continuità nel futuro all’iniziativa imprenditoriale.

Sono questi gli imprenditori che, anche in vari luoghi d’Italia, raccolgono e portano avanti con l’impegno di ogni giorno il prototipo di sviluppo economico olivettiano, che può rappresentare, nell’attuale epoca di transizione e di incertezza di modelli e riferimenti, una solida base per costruire relazioni umane e sociali stabili e proficue, realizzare una Business Transformation di successo e portare sviluppo economico durevole.

Personalmente ho avuto il privilegio di conoscere e lavorare con alcuni di questi imprenditori, ricavando un importante arricchimento umano e professionale, ed è perciò a loro che mi sento di dedicare le mie riflessioni.

 

Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak


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Sistemi di Gestione e Certificazioni

Attuare le trasformazioni aziendali in modo regolamentato grazie ai Sistemi di Gestione e alle Certificazioni

Sono circa 2,4 milioni nel mondo, di cui 141 mila in Italia, le certificazioni dei Sistemi di Gestione di organizzazioni pubbliche e private. Sistemi di Gestione e Certificazioni secondo i requisiti di standard riconosciuti a livello internazionale sono strumenti in grado di sostenere la crescita e la trasformazione delle aziende.

È notizia di questi giorni (fonte: Accredia - 1° dicembre 2023, ndr) che, secondo la survey periodica pubblicata dall’ISO (l’organizzazione internazionale che dal 1947 raggruppa diversi paesi ed emette norme tecniche internazionali in un vasto ambito di settori della società e dell’economia), l’Italia è il primo paese in Europa e il secondo nel mondo per il numero delle certificazioni dei sistemi di gestione (in particolare per la Qualità, l’Ambiente, la Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro).

I Sistemi di Gestione sono un complesso di regole e procedure che vengono emesse e applicate in forma volontaria dalle imprese sulla base dei requisiti delle norme ISO di riferimento. Essi rappresentano uno strumento che consente di regolamentare e monitorare efficacemente i processi aziendali, valutando i rischi, le opportunità e le prestazioni delle diverse attività svolte. La certificazione dei Sistemi da parte di organismi indipendenti consente inoltre alle aziende di avere una valutazione periodica sulla validità delle regole applicate e di perseguire il continuo miglioramento delle stesse.

Dagli anni ’90 del secolo scorso, quando hanno iniziato ad apparire le prime certificazioni di Qualità secondo i requisiti della norma ISO 9001, sono cresciuti sia il numero dei certificati sia i settori di applicazione dei Sistemi di Gestione. In particolare, nell’ultimo periodo, l’attenzione delle imprese agli aspetti legati alla sostenibilità e alle sue declinazioni riassunte nell’acronimo ESG (Environmental, Social, Governance) ha indotto le aziende a implementare Sistemi di Gestione Ambientale certificati secondo la norma ISO 14001 e Sistemi di Gestione della Salute e Sicurezza certificati secondo la norma ISO 45001, gestendo le politiche di acquisto in base alla linea guida ISO 20400 sugli acquisti sostenibili.

Altro ambito nel quale le certificazioni stanno prendendo sempre maggiore rilevanza è quello dei Sistemi di Gestione dell’Energia secondo i requisiti della norma ISO 50001 e della prevenzione della corruzione secondo la norma ISO 37001. Un settore nel quale l’Italia è tra i paesi che hanno voluto dotarsi di una specifica regolamentazione è poi quello della parità di genere, attraverso la prassi di riferimento UNI PdR 125 che regolamenta questi aspetti nelle organizzazioni.

In tutti i Sistemi di Gestione che abbiamo citato, come nelle norme ISO alle quali essi fanno riferimento, viene data particolare enfasi agli stakeholder (tutti i soggetti attivamente coinvolti in un’iniziativa, il cui interesse è negativamente o positivamente influenzato dal risultato di quest’ultima e la cui azione o reazione a sua volta influenza l’iniziativa stessa), all’approccio per processi (insiemi di attività che recepiscono elementi in input e producono output determinati), all’analisi dei rischi (risk based thinking) e al problem solving attuato applicando metodologie collegate al Ciclo di Deming P-D-C-A (Plan, Do, Check e Act, metodo che consente un approccio strutturato all’analisi e alla soluzione dei problemi).

Si tratta di buone pratiche che si ritrovano nel project management e che possono essere applicate anche nell’affrontare un progetto di trasformazione aziendale. Inoltre, dotare l’azienda di un complesso di regole strutturate e di strumenti operativi definiti, condivisi e applicati ai diversi livelli dell’organizzazione (ciascuno per il proprio ruolo e le proprie responsabilità), consente di avere in qualsiasi momento la percezione e il controllo dell’andamento dell’impresa e di poterlo adeguare con tempestività e garanzia di risultato ai cambiamenti che si intendono apportare per rendere l’organizzazione più efficiente ed efficace nell’approccio alle sfide del mercato.

Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak

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