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RICERCA E INNOVAZIONE

Ricerca e innovazione: componenti strategiche

per la competitività e lo sviluppo delle aziende


Mantenere e accrescere il “business” – nel senso di attività dell’azienda – ed evitare il rischio di trovarsi fuori dal mercato, richiede di perseguire l’innovazione come percorso obbligato, maratona impegnativa ma gratificante.

Tra le notizie dal mondo delle imprese apparse negli ultimi giorni, figurano due annunci che invitano a riflettere su una componente fondamentale per la crescita delle aziende: l’innovazione.

Wikipedia – Dominio pubblico

A Reggio Emilia è stata inaugurata una nuova ala del Parco Innovazione, sorto nei capannoni bonificati e urbanizzati delle ex Officine Meccaniche Reggiane. In questa vasta area, depositaria di una lusinghiera tradizione industriale che dal 1901 ha visto produzioni meccaniche, impiantistiche, ferroviarie e aeronautiche e che ora si apre a una seconda vita, è ospitato un importante polo universitario di UNIMORE (Università di Modena e Reggio Emilia) dedicato, tra l’altro, al digitale, all’ingegneria e all’educazione per l’alta formazione e la ricerca.

Credit: Pete Linforth - Pixabay

Quasi contemporaneamente a tale evento, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy ha diffuso il report sulle attività brevettuali svolte tramite l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi nel 2023. In base ai dati consuntivati, il numero delle domande di brevetto per invenzione industriale è aumentato di circa il 4% rispetto al 2022, mentre le domande relative ai modelli di utilità sono aumentate di circa il 3%.

  

  Credit: Alexa - Pixabay

Queste tendenze mostrano come nel mondo dell’industria, la ricerca e l’innovazione continuino a occupare una posizione strategica, sostenuta dagli orientamenti del mercato verso prodotti e soluzioni in cui le dimensioni digitale e di sostenibilità rivestono un ruolo di primo piano per lo sviluppo dei prodotti e dei processi. È certamente un importante segno di vitalità del sistema imprenditoriale italiano verso la ricerca, la creatività e, quindi, verso le nuove applicazioni industriali, nonostante i difficili momenti della situazione attuale. 


Non è perciò neppure un caso se, in base alle statistiche pubblicate da “Il Sole 24 Ore”, tra le prime aziende quotate alla borsa di New York gli investimenti in ricerca e sviluppo siano mediamente pari al 14 % circa dei ricavi e se tra queste imprese vi siano aziende che si occupano di informatica (hardware e software), ma anche di telecomunicazioni e mobilità.

Questa percentuale è pienamente in linea con quanto sostenuto, ormai da diverso tempo, dagli esperti di organizzazione aziendale, per cui affinché un’azienda possa mantenere e accrescere la propria competitività, è essenziale che quota parte dei ricavi sia reinvestita nelle attività di ricerca e non in mero profitto. È fondamentale che le tecnologie su cui si basano i contenuti dei prodotti e quelle che governano i processi aziendali siano costantemente riviste e aggiornate, sulla base di un’analisi delle tendenze di mercato e delle scelte dei concorrenti.

Credit: Keith Johnston - Pixabay

Restare indietro in questa corsa può condizionare il destino e la stessa sopravvivenza delle imprese che più facilmente rischiano di ritrovarsi ai margini o fuori dal mercato per ‘mancanza di idee’. Non si tratta però, come si potrebbe pensare, di una corsa di pura velocità, ma di una maratona nella quale contano costanza e attento dosaggio dello sforzo. Come nello sport è poi determinante il gioco di squadra e la presenza di talenti in posizioni strategiche.

Tornando al tema iniziale, quindi, è assolutamente importante e strategico perseguire e incoraggiare l’interazione tra mondo accademico e quello industriale nella creazione di relazioni e strutture che possano favorire i giovani nello sviluppo del proprio percorso di formazione, in modo da conservare e tramandare le esperienze consolidate dalle figure senior e per scoprirne di nuove, a vantaggio di una learning organization capace di far crescere l’economia e il lavoro.

 

Andrea Calisti

Business Transformation Expert

 

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Globalizzazione: fine dei giochi?

Globalizzazione: dopo 25 anni sembra necessario un cambiamento di approccio

Foto di Paul Brennan - Pixabay

Il mondo industriale italiano è ancora in fermento. Nell’automotive, in questi giorni sono circolate voci sull’arrivo in stabilimenti italiani della produzione di auto elettriche di origine cinese, date in appalto per salvare i livelli occupazionali.

Quasi nello stesso tempo è apparso sul Corriere della Sera un articolo dal titolo “Pannelli fotovoltaici, tutti i numeri del dominio cinese: la transizione green passa solo da Pechino”, nel quale  la Redazione Economia del quotidiano milanese, partendo dai numeri pubblicati in un rapporto ENEL-Ambrosetti, mette in evidenza la condizione di difficoltà in termini di competitività in cui si trova l’Europa, a causa di costi operativi in ingresso molto più alti di quelli cinesi e di una filiera priva di economie di scala.

Foto di Sumanley xulx - Pixabay

Questi due casi – a prescindere dalle riflessioni specifiche di molti commentatori – sono, a mio avviso, un esempio dell’effetto che la cosiddetta globalizzazione, tanto incoraggiata in passato, ha prodotto: il depauperamento e il declino tecnologico di intere filiere industriali del nostro continente.

Negli anni dell’immediato dopoguerra (tra i ’50 e i ’70 del XX secolo) alcuni paesi sono stati oggetto di iniziative industriali volte a riutilizzare tecnologie e ad esportare prodotti divenuti ormai obsoleti in Europa, con lo scopo di dar loro una “seconda giovinezza”, allungandone il ciclo di vita e ricollocando contemporaneamente – in tutto o in parte – i macchinari impiegati per la loro realizzazione.

Foto di Pete Linforth - Pixabay

Successivamente, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino e grazie alle aperture dei governi locali, molte aziende hanno visto nei mercati asiatici, come quello cinese, sia un serbatoio di manodopera a costi convenienti, sia un potenziale sbocco per i propri prodotti. Ecco, quindi, che intere produzioni sono state spostate dall’Europa o sono state addirittura sviluppate e industrializzate sul posto. Questo processo ha favorito la nascita e lo sviluppo di capacità tecniche locali, mentre in Europa si è assistito a un progressivo depauperamento tecnologico di interi settori industriali – come quelli citati ad esempio - che hanno perso, complici anche visioni industriali e politiche inadeguate, linfa vitale nello studiare e implementare nuovi prodotti e tecnologie; la stessa linfa che negli anni ha invece arricchito e trasformato in concorrenti agguerriti i paesi che erano visti come territorio, se non di conquista, almeno di colonizzazione industriale.

Oggi il risveglio è brusco. Ci accorgiamo di essere rimasti indietro in settori tecnologici cruciali e fatichiamo a tenere/recuperare il passo.

Questa situazione tende a essere preoccupante se consideriamo le potenziali ripercussioni dei conflitti esistenti in diverse parti del mondo (in Ucraina, ma anche in Medio Oriente e in Africa), per non parlare dei rapporti USA-Cina, che potrebbero condizionare la disponibilità di prodotti e tecnologie sui quali non abbiamo più la capacità di governo.

Foto di alex dutemps - Pixabay

Oltre ai fattori di cui sopra, anche i cambiamenti climatici impongono una riflessione sull’impatto ambientale dei trasporti delle merci, rendendo sempre più urgente la definizione di una nuova politica industriale che possa rilocalizzare le produzioni e ridare energia a interi comparti della manifattura europea.

È questa una trasformazione di business che impatta su un intero continente e che richiede una nuova visione per recuperare, salvaguardare e mettere al centro delle scelte strategiche la dimensione locale di territori capaci di esprimere ancora elevati livelli tecnologici e manufatturieri.

È necessario che tale visione trovi spazio e applicazione in tutti quei settori, dai beni strumentali materiali, all’informatica e allo sviluppo dei software, le cui applicazioni consentono il funzionamento dei diversi comparti dell’economia.

Per applicare una siffatta strategia con successo, uno strumento è senza dubbio la creazione e lo sviluppo di centri di formazione, sia da parte delle istituzioni pubbliche che delle aziende. Accademie che possano favorire la conservazione e la continuità dei saperi e delle competenze, ma anche il loro incremento attraverso la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti e processi sempre più efficienti e sostenibili per l’intero ecosistema.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Dal mondo dell’automotive

Rumor dall’automotive: riflessioni su fusioni e organizzazione agile

Il mondo dell’automotive è, senza dubbio, uno dei campi industriali che negli ultimi tempi ha dimostrato un certo fermento. Nuove tecnologie, ricadute occupazionali e strategie di alleanze tra costruttori stanno monopolizzando l’attenzione degli addetti ai lavori. Ogni cambiamento ha inevitabilmente delle ricadute sull’organizzazione e sulle prestazioni dei processi aziendali e perciò ci è sembrato opportuno cogliere l’occasione per fare alcune riflessioni di portata generale.

L’evoluzione degli scenari

Foto di L. Pennino

Nelle ultime settimane il settore automotive, soprattutto in Italia, è stato oggetto di diversi rumor e dichiarazioni.

Foto di Fabio - Pixabay

Si è parlato e ancora si discute del futuro di stabilimenti di produzione un tempo tempio dell’auto Made in Italy; parliamo di Mirafiori, da cui sono usciti, dal 1939 a oggi, modelli Fiat entrati nella storia (500, 600, 850, 127, 128, 131, Uno, Punto e innumerevoli altri) e di Pomigliano d’Arco, culla dell’Alfasud (modello con soluzioni tecniche innovative, del quale nel 2022 sono stati festeggiati i 50 anni).

Sono state evocate possibili nozze tra i costruttori Renault e Stellantis, puntualmente smentite dai top manager delle rispettive aziende. Sono stati infine pubblicati e commentati i dati di vendita del 2023 che vedono, a livello mondiale, la conferma della leadership di Toyota (con oltre 11 milioni di unità vendute) e le altre posizioni del podio occupate da Volkswagen e Hyundai-Kia, mentre Renault e Stellantis si dovrebbero ragionevolmente piazzare (in base ai conteggi delle vendite in elaborazione) rispettivamente al quarto e al quinto posto della classifica.

Riflessioni

Gli avvenimenti sopra citati inducono ad alcune riflessioni che non sono strettamente attinenti al mondo dell’automotive, ma hanno una portata generale.

Innanzitutto sulla questione delle fusioni e della riduzione del numero dei player a livello mondiale. Sergio Marchionne, circa dieci anni orsono, aveva ipotizzato un massiccio movimento di consolidamenti nel settore automotive, che avrebbe razionalizzato il numero di costruttori, in particolare europei. Guardando la situazione a posteriori, il fenomeno, nella portata ipotizzata, non si è verificato. Certamente le alleanze sono importanti, specialmente in un settore nel quale gli investimenti, per mantenere i prodotti al passo con le evoluzioni tecnologiche, sono importanti sia dal punto di vista tecnico che sotto il profilo economico.

Foto di Günther Schneider - Pixabay

Come però ha dichiarato recentemente al Corriere della Sera Luca De Meo (CEO di Renault), questa condizione non è sufficiente e rischia di rappresentare la ricerca di soluzioni concettualmente facili a problemi complessi: «Se il mercato è molto volatile e l’ingegnosità molto evolutiva, serve un’organizzazione agile, flessibile, piccola da gestire, per orientare i consumatori all’innovazione e non solo alla riduzione dei costi.»

Organizzazione agile e flessibile dunque, eliminazione degli sprechi più che indiscriminata riduzione dei costi: ecco dei concetti noti a quanti hanno avuto modo di approfondire metodi e strumenti del Toyota Production System, da cui è nata la Lean Organization.

Ottimizzare le attività, minimizzando o eliminando quelle prive di valore aggiunto, consente di migliorare le prestazioni e i risultati, ma anche di liberare delle risorse finanziarie utili per investimenti nella ricerca e nello sviluppo di nuovi processi e nuovi prodotti.

L’investimento in Ricerca e Sviluppo è, infatti, un altro dei settori strategici su cui occorre puntare in modo deciso, anche a costo di sacrificare l’entità dei dividendi agli azionisti, per assicurare un futuro all’impresa. A questo proposito Toyota ha mostrato negli anni un deciso orientamento in tal senso (evidenziato anche dal numero di brevetti detenuti), mentre, per Renault, De Meo, parlando della nuova Twingo (prevista in uscita nel 2026), sempre al Corriere dichiara: «Con lei avremo riscritto le regole del gioco nello sviluppo dei prodotti Renault. La sua formazione richiederà al massimo due anni, un tempo determinante per captare la capacità di reazione del mercato che influisce sulla riduzione dei costi di tutti i futuri progetti. Sarà la vera risposta ai costruttori cinesi, dimostreremo che l’industria dell’automobile europea può essere competitiva e produttiva.»

Foto di andreas160578 - Pixabay

Inoltre, a proposito dell’auto elettrica, altro soggetto di discussione e confronto tra diverse scuole di pensiero, il manager evidenzia come, per alcuni utilizzi, sia migliore dell’auto a combustione interna (ad esempio nelle aree urbane grazie al vantaggio di non diffondere emissioni inquinanti e di avere un funzionamento silenzioso).

Chiaramente il costo è più elevato rispetto alle vetture con motore a benzina o diesel e per ridurlo è necessario un impegno sia da parte del mondo politico sia da parte del mondo della ricerca e dell’industria, perché il progresso non può essere arrestato o, peggio, rifiutato senza correre il rischio di fare un passo indietro.

Personalmente le considerazioni espresse dal CEO di Renault mi trovano molto d’accordo. Spesso ho segnalato, come esempio di esperienza industriale felice, la strategia applicata dall’ing. Adriano Olivetti nella guida dell’azienda omonima. Nelle riflessioni sopra citate si ritrovano un orientamento al prodotto (e non solo ai profitti), al mercato, ma anche alla modalità di organizzare e di sviluppare le attività delle diverse funzioni aziendali, che possono ricordare quanto applicato dall’industriale di Ivrea, che dovrebbe essere alla base di ogni seria riflessione di politica industriale e di evoluzione del business da parte di politici e imprenditori.

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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Innovazione e cambiamento per le PMI

Innovazione e cambiamento: fattori strategici per la sopravvivenza delle Piccole e Medie Imprese

L’importanza di un supporto efficace per affrontare questo percorso


L’evoluzione degli scenari

Foto di Augusto Ordóñez -Pixabay

L’inizio dell’anno è sempre un momento di bilanci e di indagine sulle prospettive per il futuro. Secondo alcuni esperti, l’anno appena iniziato sarà per la nostra industria interlocutorio per effetto delle dinamiche dell’economia mondiale, che l’Italia riuscirà a superare continuando a valorizzare la diversificazione della propria economia e del proprio tessuto imprenditoriale.

In questo contesto di analisi e aspettative, si inseriscono anche le statistiche e le previsioni di Cerved, la società che dal 1973 studia le evoluzioni del mondo imprenditoriale.

Secondo il Rapporto Cerved PMI 2023, a un 2022 positivo per le PMI italiane (+6,1% di fatturato, +3,2% di valore aggiunto), nel 2023 si è avuta un’inversione della tendenza, causata dall’inflazione, dal rialzo dei tassi di interesse e dalle note situazioni di conflitto in atto nello scenario geopolitico. Sempre secondo le previsioni 2024-2025 elaborate da Cerved, sarebbero a rischio l’8,5% delle piccole e medie imprese; inoltre lo scorso anno, per la prima volta dal 2019, sono tornate a crescere le chiusure di impresa (+33,3%), in particolare nel settore manifatturiero.

Nuove sfide imprenditoriali

Nei prossimi anni le aziende si troveranno quindi ad affrontare nuove sfide, operando scelte strategiche per assicurare la loro stessa sopravvivenza.

Inevitabilmente si assisterà a una sorta di selezione naturale che, secondo gli esperti, interesserà in particolare le PMI e che potrà essere superata solamente con delle decisioni mirate di investimenti, di diversificazione e di innovazione. Solo gli imprenditori che sceglieranno di non stare alla finestra potranno mantenere e accrescere il proprio livello di competitività e le proprie quote di mercato, superando la congiuntura sfavorevole e fronteggiando efficacemente la concorrenza europea ed extra-europea.

Foto di neo tam - Pixabay

Per poter fare degli investimenti occorrono però risorse finanziarie e per poter disporre di tali mezzi senza aumentare l’indebitamento dell’azienda, la strada obbligata è quella della riorganizzazione delle attività, che però non vuol dire tagliare indiscriminatamente produzione e personale. Un progetto di riorganizzazione aziendale efficace deve porsi come obiettivo l’eliminazione delle attività prive di valore aggiunto, con la conseguente liberazione di risorse finanziarie da indirizzare, ad esempio, nello sviluppo di nuovi prodotti, nella ricerca di opportunità di mercato diverse e nella formazione per la riqualificazione del personale.

A riguardo, è interessante la citazione tratta dal discorso fatto da Adriano Olivetti in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli (aprile 1955):

«Innalzare le nostre insegne a New York come a Francoforte, a Vienna come a San Francisco, a Rio de Janeiro o a Città del Messico o nella lontana Australia, organizzare officine, istruire venditori (…) garantire l’efficienza del personale, assicurare ovunque un servizio di assistenza tecnica (…) non fu cosa né facile, né rapida.

E questa lotta non avrà mai fine, poiché la concorrenza, le invenzioni, i perfezionamenti non hanno limiti e dovremo, sotto questo riguardo, non dar mai segni di stanchezza, alimentando di nuove forze tecniche i nostri laboratori di ricerche, i nostri centri studi.» (Adriano Olivetti “Ai Lavoratori”, Edizioni di Comunità).

Foto di Mohamed Hassan - Pixabay

Nel testo riportato è efficacemente riassunto l’atteggiamento delle imprese virtuose, che guardano costantemente al prodotto, all’innovazione e al mercato, per cogliere i cosiddetti “segnali deboli” e sfruttare tempestivamente le opportunità. Sono queste le aziende capaci di risollevarsi da momenti di crisi e sulla base dell’indice “Back-to-Bonis Score” (sviluppato sempre da Cerved mediante algoritmi predittivi che stimano le capacità di recupero per ogni posizione deteriorata o a rischio di deterioramento); tra queste si annoverano le imprese a controllo familiare, quelle con un amministratore delegato esterno, le startup innovative, le aziende guidate da under 35 e quelle con una leadership femminile.

Il ruolo della consulenza

Per operare efficacemente una riorganizzazione, è opportuno che la Direzione aziendale valuti con serenità di ricorrere a un supporto di consulenza. Spesso, infatti, l’imprenditore è assorbito dalle questioni correnti e dalle esigenze immediate e, se non viene adeguatamente assistito, non è in grado di dedicare il tempo adeguato e la giusta riflessione alle strategie di riorganizzazione.

Foto di Gerd Altmann - Pixabay

Inoltre, la partecipazione ai progetti di figure qualificate con una conoscenza ad ampio spettro delle realtà imprenditoriali, consente di studiare e di implementare soluzioni derivanti da tale bagaglio di conoscenze ed esperienze.

Infine, è importante procedere con metodo, e a questo proposito, una garanzia di affidabilità è costituita dalla certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015. La certificazione garantisce, ad esempio, lo sviluppo delle diverse fasi del processo di consulenza a partire da un’analisi di rischi e opportunità e dalla definizione di specifici obiettivi di risultato.

Il consulente, oltre a saper analizzare le situazioni correnti, deve essere capace di costruire e proporre le opzioni di scenario più funzionali alle caratteristiche dell’azienda e guidare l’imprenditore verso una scelta consapevole che permetta percorsi da seguire con costanza e continuità.

 

 Andrea Calisti

Business Transformation Expert

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BluPeak Consulting è un’azienda con Sistema di Gestione della Qualità certificato secondo la norma ISO 9001:2015

Lifelong Learning

Cogito ergo sum, ovvero mantenere il know how e la competitività con la formazione continua


Le origini

Quando si parla di formazione, è ormai un fatto acquisito non riferirsi solamente all’ambito scolastico o universitario, né a un ciclo di apprendimento circoscritto nel tempo. Da diversi anni è entrato nel linguaggio comune il concetto di lifelong learning, ossia di apprendimento continuo, che ha cambiato il modo di intendere la costruzione, il mantenimento e l’accrescimento della conoscenza nei diversi settori lavorativi, dalle libere professioni al lavoro dipendente.

L’idea di una formazione continua, spesso di tipo esperienziale (training on the job), nasce intorno agli anni ’30 del XX secolo. I primi destinatari sono gli operai che, nelle fabbriche in cui viene applicata l’organizzazione scientifica del lavoro (il cosiddetto taylorismo) devono apprendere e applicare nuove modalità di lavorare secondo fasi specifiche e ripetitive, rigidamente temporizzate.

Negli anni ’70 l’educazione permanente inizia ad avvicinarsi alla forma attuale. Nel 1972 viene pubblicato dall'UNESCO il rapporto Faure intitolato “Learning To Be”. Nel documento viene definito un concetto che influenzerà le politiche educative e formative conseguenti. La formazione deve essere fondata sulle esigenze della persona per cercare di migliorare complessivamente la qualità della vita personale e professionale. Non si parla più solo di acquisire conoscenze in un preciso periodo della vita (tradizionale percorso accademico di studi o acquisizione di un mestiere), ma di un apprendimento continuo in linea con i mutamenti della società e del lavoro.

Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio il lifelong learning completa la propria connotazione acquisendo la forma attuale.

La formazione continua oggi: le “Academy”

In ambito aziendale, il concetto di formazione continua è spesso declinato mediante specifiche strutture organizzative: le Academy.

La creazione di una simile struttura riveste un duplice scopo:

  • trasmettere alle nuove generazioni il prezioso bagaglio di esperienza, il know how maturato dall’impresa nel corso degli anni e custodito da operai e tecnici qualificati;

  • assicurare la formazione delle nuove leve di operai e tecnici integrando i percorsi scolastici e universitari già citati.

Anche il concetto di Academy aziendale non è nuovo. Nel 1922 nasceva la “Scuola Allievi Fiat” (poi ISVOR-Fiat) seguita nel 1927 dall’Academy di General Motors. Tra gli anni ’30 e ’40 del XX secolo, Olivetti dava vita al Centro di Formazione Meccanici e a un Istituto Tecnico Industriale. Nel secondo dopoguerra meritano di essere citati gli esempi della Scuola di Studi Superiori sugli Idrocarburi dell’ENI del 1957 (fortemente voluta e promossa da Enrico Mattei come strumento strategico di formazione delle risorse che avrebbero contribuito alla nuova politica energetica sviluppata dallo stesso Mattei in campo internazionale) e la Scuola Superiore Guglielmo Reiss Romoli per le telecomunicazioni, creata dalla STET nel 1972.

Non tutte le istituzioni sopra citate sono oggi ancora attive. Tra le iniziative che attualmente promuovono la formazione continua in azienda è opportuno citare la Tod's Academy e quella di Prada, che consentono a esperienze artigianali di nicchia nel campo della pelletteria e della moda di sopravvivere ed essere tramandate alle giovani generazioni, assicurando loro anche un futuro professionale nell’impresa.

Anche BluPeak ha avuto modo di confrontarsi con un progetto di creazione di un’Academy aziendale fornendo il proprio know how consulenziale a un’impresa del settore impiantistico la cui Direzione ha mostrato di essere sensibile alle tematiche della formazione continua, come evidenziano queste considerazioni del General Manager della società:

«In 50 anni non abbiamo mai perso un cliente per un problema non risolto. Per mantenere questi standard, garantiamo un’adeguata formazione continua a tutti i collaboratori: BluPeak Consulting ci affianca con professionalità e successo in queste attività importanti.»

L’importanza della consulenza e di una formazione certificata

Per lo sviluppo delle specifiche iniziative di formazione, così come per la creazione di un’Academy, le aziende possono appoggiarsi su risorse interne, ma anche affidarsi a un supporto consulenziale esterno.

Questa seconda alternativa permette di arricchire l’organizzazione e i contenuti della formazione grazie all’esperienza dei consulenti derivante dalle relazioni e dal confronto con diverse realtà. Uno sguardo esterno consente inoltre di focalizzare e valorizzare opportunamente eventuali aspetti e contenuti che potrebbero sfuggire all’imprenditore.

Infine, la possibilità di affidarsi a organizzazioni che adottano un Sistema di Gestione per la Qualità certificato secondo lo standard di riferimento ISO 9001:2015 garantisce un alto livello di affidabilità sia per quanto riguarda la scelta dei docenti, sia per la progettazione e l’erogazione dei contenuti secondo modalità codificate e validate dall’Ente esterno che emette la certificazione (esempio TuV Italia, IMQ, DNV, Kiwa, Rina, ecc.).    

Gli incentivi per la formazione continua

Anche il legislatore ha da tempo riconosciuto l’importanza della formazione continua e di incoraggiare le iniziative mediante appositi incentivi.

Il principale strumento di incentivazione della formazione è costituito dai Fondi Paritetici Interprofessionali.

I Fondi Paritetici Interprofessionali (istituiti con la Legge 388/2000) sono organismi di natura associativa finalizzati alla promozione di attività di formazione rivolte ai lavoratori occupati. Per queste attività, i Fondi sono autorizzati a raccogliere lo 0,30% della retribuzione del singolo lavoratore versato all’INPS dalle aziende iscritte al Fondo stesso come "contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria" e a utilizzare queste risorse per promuovere azioni formative volte a qualificare – in sintonia con le strategie aziendali – i lavoratori dipendenti.

Altri incentivi alla formazione sono istituiti con bandi regionali, spesso collegati alla erogazione di fondi europei.

Infine, la revisione del PNRR operata dal Governo italiano, insieme alla riformulazione degli obiettivi e delle risorse, individua una dotazione di circa 6,4 miliardi di euro per incentivi che saranno indirizzati su tre aree specifiche per l’efficientamento dei processi:

  • efficienza energetica;

  • produzione e autoconsumo di energia;

  • formazione.

Per quanto riguarda la formazione, vale la pena ricordare che tra i soggetti che possono provvedere direttamente alla creazione e alla realizzazione di progetti finanziati con le modalità sopra citate, sono esplicitamente menzionate le organizzazioni – come ad esempio BluPeak – che possiedono la certificazione di Qualità in base alla norma ISO 9001:2015 per il settore IAF (International Accreditation Forum) EA 37 (Istruzione).

Conclusioni

Dalle considerazioni che abbiamo cercato di sviluppare, appare evidente come la formazione continua delle risorse sia un fattore strategico per le imprese in grado di garantirne la continuità nel tempo e la competitività nel mercato.

A tale scopo è opportuno che le aziende si dotino di uno specifico budget da destinare sia al mantenimento e allo sviluppo di una specifica organizzazione dedicata alla conservazione e allo sviluppo del know how d’impresa, sia all’organizzazione di iniziative di formazione (con un eventuale supporto esterno) integrando eventuali incentivi messi a disposizione dallo Stato.

Il patrimonio intellettuale rappresentato dalle persone che lavorano in azienda è, senza ombra di dubbio, il principale bene intangibile dell’impresa, su cui investire rappresenta una priorità strategica.

Gianni Berengo Gardin - Olivetti Pozzuoli

Lo aveva intuito correttamente Adriano Olivetti quando diceva:

“La fabbrica non può guardare solo all'indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l'uomo, non l'uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura”.



Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak

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Adriano Olivetti, imprenditore visionario

Esistono ancora in Italia imprenditori visionari capaci di operare la Business Transformation?

L’esempio di Adriano Olivetti e le trasformazioni industriali di oggi

Quando si parla di imprenditori visionari, l’esempio che viene sempre citato è quello di Steve Jobs. Senza nulla togliere a questo protagonista della storia recente, il cui merito è senza dubbio quello di aver saputo declinare in modo inedito oggetti di uso quotidiano (pc e telefonini) e di offrire al mercato proposte innovative (iPod e tablet), anche in Italia abbiamo avuto un modello eccellente di imprenditore, le cui intuizioni hanno portato importanti rivoluzioni di prodotto e hanno consentito a un’azienda nata nel Piemonte agricolo, di diventare protagonista sui mercati di tutto il mondo.

Adriano Olivetti: l’uomo, la fabbrica e il mondo

Difficile riassumere il personaggio Adriano Olivetti (qui in una foto del 1957) in una definizione unica ed esauriente, considerato il contributo che ha fornito all’economia italiana del secondo dopoguerra e alla storia della cultura industriale in generale.

Imprenditore, intellettuale, politico (purtroppo con scarso successo), innovatore, urbanista, Olivetti era certamente un visionario (attribuendo alla vision il senso di percezione strategica dell’evoluzione e del fine ultimo che le organizzazioni devono perseguire per raggiungere e mantenere livelli di eccellenza), probabilmente in anticipo sui tempi per l’epoca in cui ha vissuto e ha espresso le sue idee.

Per capire la portata del pensiero di Olivetti, è opportuno citare alcune frasi tratte dal discorso fatto ai lavoratori in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento campano di Pozzuoli nel 1955. Le sue parole precisano il ruolo che un’azienda riveste non solo nel sistema produttivo in generale, ma anche nel tessuto sociale del territorio in cui opera:

“Il segreto del nostro futuro è fondato, dunque, sul dinamismo dell’organizzazione commerciale e del suo rendimento economico, sul sistema dei prezzi, sulla modernità dei macchinari e dei metodi, ma soprattutto sulla partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda.”

“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di fabbrica?”

“La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza (...) una cellula operante rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie, pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe, infine, della vita stessa del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento economico e incentivo di elevamento sociale.”

L’azienda è concepita e presentata dunque come entità dinamica, innovatrice nei metodi e nelle attrezzature, ai cui obiettivi concorrono in maniera consapevole tutti i componenti dell’organizzazione (dal dirigente all’apprendista); azienda come strumento di riscatto e di prosperità collettiva e non solamente come fonte di profitto per gli azionisti.

Queste idee, espresse con forza e profondamente radicate nelle convinzioni di Olivetti, rappresentano i cardini del pensiero olivettiano, la cui architettura vede Fabbrica, Persone e Territorio come realtà interconnesse che operano scambi reciproci e si influenzano l’un l’altra, vivendo e crescendo in simbiosi con reciproco beneficio.

La fabbrica costituisce un organismo socioeconomico i cui componenti devono operare in sinergia per un fine comune e condiviso. Il profitto non può rappresentare il fine ultimo e principale dell’industria. La fabbrica deve essere aperta e partecipe delle vicende del territorio in cui opera.

Dall’inizio degli anni 30 del secolo scorso, quando arriva ai vertici aziendali, Olivetti indirizza la propria linea gestionale secondo tre direttrici di strategia precise, che portano la società a operare un’importante trasformazione di business:

  • il prodotto;

  • i mercati;

  • le persone.

Nel 1932 esce la MP1, tra le prime macchine da scrivere portatili per dimensioni e peso (circa 5 kg per un’altezza di 11 cm), ma soprattutto il primo prodotto Olivetti nel quale viene applicato, per la prima volta, un concetto caro all’ingegnere, che diventerà il filo conduttore delle politiche di prodotto aziendali e sarà fonte di prestigiosi riconoscimenti: il design.

Erede dell’MP1 sarà negli anni ’50 la Lettera 22, nata da un progetto di Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio, che nel 1959 vincerà il premio “Compasso d’Oro” per il design e che è esposta nella collezione permanente di design al “Museum of Modern Art” di New York.

Sotto la spinta di Olivetti vengono anche rinnovati gli edifici aziendali applicando concetti architettonici inediti e viene dato impulso alla ricerca su settori innovativi (le macchine da calcolo, l’elettronica), vengono aperti nuovi mercati e, soprattutto, viene creata una rete di punti vendita unica nel suo genere, nella quale al prodotto viene affiancata l’estetica dei locali, un’attenzione al design degli ambienti e degli arredi.

Adriano Olivetti può, a tal riguardo, essere considerato a pieno titolo l’inventore del concetto di showroom nel senso moderno del tema. Un interessante esempio di questa filosofia è lo showroom Olivetti di New York (dove le macchine erano poste su piedistalli all’esterno del locale, a disposizione di chiunque volesse provarle) e il Negozio Olivetti di Venezia, progettato dall’architetto Carlo Scarpa, e che oggi restaurato, è visitabile come spazio museale.

Negli anni 50 e 60, alle macchine da scrivere e da calcolo si affianca un settore emergente: l’elettronica. Anche qui Olivetti ha intuizioni geniali, una per tutte sostenere le ricerche dell’ing. Mario Tchou, brillante tecnico italo-cinese, padre dell’Olivetti ELEA (ELaboratore Elettronico Automatico), primo calcolatore a transistor che rispetto agli elaboratori a valvole allora esistenti abbinava rapidità di lavoro e ingombri ridotti. 

L’ELEA 9003 viene presentato alla Fiera di Milano nel 1957. È un grande successo della ricerca e dell’industria italiana, che apre l’era informatica della Olivetti che porterà l’azienda ai vertici mondiali dell’informatica di consumo, con prodotti che coniugano design e prestazioni.

Altro caso da ricordare è sicuramente la vicenda tecnica del progetto P101 che, nato inizialmente come prodotto sperimentale, è di fatto diventato il primo esempio di computer “da tavolo” a cui si ispirerà l’americana HP per le proprie macchine da calcolo e che sarà utilizzato dalla Nasa per le missioni lunari.


L’eredità di Adriano Olivetti nell’industria italiana di oggi

La prematura e improvvisa morte di Adriano Olivetti (avvenuta nel 1960 ad appena 59 anni) ha sicuramente privato l’industria italiana di un protagonista che molto avrebbe potuto ancora dare al contesto sociale ed economico, e che ha avuto pesanti ripercussioni anche sull’evoluzione della stessa azienda Olivetti, oggi di fatto scomparsa.

Se si volessero riassumere in breve gli insegnamenti di Adriano Olivetti si potrebbe dire:

  • una fabbrica è fatta prima di tutto di PERSONE;

  • un’industria vive di PRODOTTI;

  • AZIENDA e TERRITORIO sono intimamente legati da comuni obiettivi di sviluppo.

Tenendo presente tali brevi massime, tuttora estremamente attuali, viene spontaneo chiedersi se nel contesto industriale di oggi si possono trovare degli eredi del pensiero olivettiano.

Senza fare nomi, possiamo dire che oggi in Italia, ma anche in altri paesi industrializzati, sono individuabili due macrocategorie di “capitani d’industria”:

  • i capitalisti;

  • gli imprenditori.

I primi sono proiettati verso una dimensione dell’azienda prettamente finanziaria che guarda molto ai dividendi e meno al consolidamento e allo sviluppo attraverso l’innovazione di prodotto, la ricerca di nuovi mercati, il radicamento nel territorio e la conservazione del know how. Per costoro, gli investimenti sono pilotati esclusivamente dalla capacità di essere remunerativi e non sono necessariamente legati a una tipologia di prodotto o a un luogo di produzione specifico. Essi agiscono in funzione di una logica che, tra gli stakeholder aziendali, mette l’azionista al primo posto. Così le aziende si trovano a essere delle entità astratte e prive di radici e personalità, come nella definizione che il sociologo Franco Ferrarotti ha dato delle multinazionali.

I secondi sono coloro che si impegnano in azienda in prima persona affrontando ogni giorno i problemi e le sfide che nascono nella fabbrica, che seguono le evoluzioni del mercato cercando costantemente nuove opportunità e investono i guadagni nel miglioramento delle tecnologie e dei macchinari e nell’ampliamento delle infrastrutture anziché in dividendi, perseguendo una logica di sviluppo nel rispetto delle proprie radici, che coinvolgono i familiari e i figli nella gestione dell’azienda perché capiscano il valore del lavoro, imparino e sappiano dare continuità nel futuro all’iniziativa imprenditoriale.

Sono questi gli imprenditori che, anche in vari luoghi d’Italia, raccolgono e portano avanti con l’impegno di ogni giorno il prototipo di sviluppo economico olivettiano, che può rappresentare, nell’attuale epoca di transizione e di incertezza di modelli e riferimenti, una solida base per costruire relazioni umane e sociali stabili e proficue, realizzare una Business Transformation di successo e portare sviluppo economico durevole.

Personalmente ho avuto il privilegio di conoscere e lavorare con alcuni di questi imprenditori, ricavando un importante arricchimento umano e professionale, ed è perciò a loro che mi sento di dedicare le mie riflessioni.

 

Andrea Calisti

Business Transformation Expert del Team BluPeak


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